LA SCELTA DELLA SORGENTE E LA DETERMINAZIONE DEL PERCORSO DEGLI ACQUEDOTTI

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Il primo fattore da considerare nella progettazione di un acquedotto era la scelta delle sorgenti idonee, che non potendo, come oggi, essere esaminate con analisi chimiche, venivano osservate a vista.

Le sorgenti dovevano essere pure, limpide, prive di canne e muschio, inaccessibili all’inquinamento. Si esaminavano anche le condizioni fisiche generali degli abitanti locali che ne facevano uso, con riferimento speciale alla limpidezza degli occhi, alla struttura ossea, al colore della carnagione. Campioni di acqua venivano conservati in contenitori di bronzo, per accertarne la capacità di corrosione, la viscosità, l’effervescenza, la presenza di corpi estranei.

Scelte le sorgenti, bisognava studiare il convogliamento dell’acqua, valutando il problema dei ponti e delle gallerie. La perforazione di queste ultime veniva effettuata a profondità esatta, basata sul livellamento del percorso, con sfiatatoi scavati ad intervalli regolari, che permettevano una parziale illuminazione e aerazione, consentendo l’evacuazione dei materiali di risulta dello scavo. In estrema sintesi la teoria sull’approvvigionamento idrico era quella di utilizzare il flusso gravitazionale, aiutato da una lieve pendenza del condotto. I sifoni intelligentemente utilizzavano il principio per cui l’acqua risale al proprio livello, anticipando i moderni metodi di approvvigionamento ad alta pressione. Altra importante operazione consisteva nel condurre un accurato rilevamento del percorso progettato, allo scopo di precisarne i livelli. La pendenza media degli acquedotti romani è calcolata intorno al 2 x 1000, ma ci sono numerosi e brevi tratti dove è molto più alta e d’altro canto tanti altri settori dove è più bassa. Solo per fare un esempio, l’acqua Claudia nella diramazione della gola di San Cosimato, che appartiene al tempo di Adriano, ha una pendenza di discesa del 2,81 × 1000, mentre sul lungo tratto dalle Capannelle a Roma i valori variano da 1,98 a 1,45 × 1000.

Procedura fondamentale riguardava l’acquisizione del terreno necessario per far passare l’acquedotto. L’operazione veniva eseguita dallo Stato o dalla municipalità al fine di costringere i proprietari riluttanti a vendere i lotti, non essendoci la potestà di esproprio, né per questo tipo di lavori, né per altre opere pubbliche. In tal modo, Licinio Crasso, nel 179-178 a.C., poté causare l’abbandono di un progetto di canalizzazione, semplicemente rifiutandosi di concedere il diritto di passaggio. Conseguentemente lo Stato adottava un generoso atteggiamento nei riguardi di chi vendeva, acquistando tutto il lotto dove si trovava la striscia di terreno necessaria alla costruzione, per poi eventualmente rivendere la parte inutilizzata.

La fascia di terreno di rispetto per gli acquedotti romani era di 15 piedi per ogni lato nelle strutture collocate fuori città e di 5 piedi nel caso che si trattasse di strutture all’interno della città. Per quanto concerne le modalità di finanziamento dei costi di edificazione degli acquedotti, differentemente dai tempi moderni, questi furono costruiti a totale spesa dell’Erario nel periodo repubblicano, ma non sulla base di introiti consequenziali a tasse. Se nessun tentativo fu compiuto per ricavare dalle tasse il costo iniziale, nulla fu fatto per recuperare i costi di gestione. L’Anio Vetus ad esempio, costruito nel 272 a.C., fu pagato con il bottino della guerra contro Pirro, l’intero sistema era quindi improduttivo e quanto mai infruttifero per una sana economia.

Gli appalti dei lavori erano banditi sotto la Repubblica dai Censores e sotto impero dai Curatores, che fungevano da agenti dell’imperatore. L’acqua, lasciando le sorgenti dopo essere stata decantata nella Piscina Limaria, entrava nel canale (specus) vero e proprio proprio dell’acquedotto.

Vitruvio per la distribuzione dell’acqua parla di condotte di pietra, tubi di pietra, tubi di piombo, tubi di terracotta e tubi di pelle, ai quali si potevano aggiungere tubi di legno e condotti aperti in muratura. I canali dell’acquedotto erano perlopiù del tipo in muratura, con sistema di copertura diversa anche per uno stesso acquedotto. In quasi tutti casi la sezione dello speco era rettangolare fino all’imposta; ma la copertura poteva essere piana, a cappuccina (doppio spiovente) o a vòlta. Per facilitare la costruzione dell’acquedotto e le successive ispezioni e la pulizia di tutto il canale, nei settori in galleria erano scavati dei pozzi a volte rotondi, a volte quadrati o rettangolari, provvisti di pedarole per la discesa. La tendenza dell’acqua di incrostare i canali con spessi strati di depositi calcarei obbligava gli addetti alla manutenzione ad assicurarsi che i canali interessati venissero puliti continuamente per evitare il blocco dei condotti. Alcuni acquedotti, come L’acqua Vergine, erano quasi completamente privi di calcare e non richiedevano praticamente manutenzione, mentre molti altri necessitavano di una manutenzione continua, che si effettuava deviando il flusso del tratto interessato sulla condotta più vicina per il tempo strettamente necessario all’intervento.

nelle foto: le sorgenti di genzano ( con massi rossi ) di lucca ( il canaletto ) di caposele in prov. di avellino ( cascata più grande ) e quella di marano equo in prov. di roma ( foto con persona )