EPICURO “LETTERE A MECENEO”

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  • Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell’ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali. Lettera a Meneceo 135
  • Non indugi il giovane a filosofare, né il vecchio se ne stanchi. Nessuno è mai troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima. Chi dice che l’età per filosofare non è ancora giunta o è già trascorsa, è come se dicesse che non è ancora giunta o è già trascorsa l’età per la felicità. Lettera a Meneceo 122
  • Devono filosofare sia il giovane sia il vecchio; questo perché, invecchiando, possa godere di una giovinezza di beni, per il grato ricordo del passato; quello perché possa insieme esser giovane e vecchio per la mancanza di timore del futuro. Lettera a Meneceo 122
  • Bisogna dunque esercitarsi in ciò che può produrre la felicità: se abbiamo questa possediamo tutto: se non l’abbiamo, cerchiamo di fare di tutto per possederla. Lettera a Meneceo 122
  • Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene ed ogni male risiedono nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione. Perciò la retta conoscenza che la morte non è niente per noi rende gioiosa la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitamente il tempo, ma sopprimendo il desiderio di immortalità. Lettera a Meneceo 124
  • Nulla c’è di temibile nel vivere per chi si sia veracemente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più. E così anche stolto è chi afferma di temere la morte non perché gli arrecherà dolore sopravvenendo, ma perché arreca dolore il fatto di sapere che verrà: ciò che non fa soffrire quando sopravviene, è vano che ci addolori nell’attesa. Lettera a Meneceo 125
  • Occorre ricordare che il futuro non è del tutto nostro né del tutto al di fuori della nostra portata, e di conseguenza non aspettarci che si avveri del tutto né disperare che possa avverarsi. Lettera a Meneceo 127
  • Bisogna anche considerare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e tra quelli naturali alcuni sono anche necessari, altri naturali soltanto; tra quelli necessari poi alcuni lo sono in vista della felicità, altri allo scopo di eliminare la sofferenza fisica, altri ancora in vista della vita stessa. Una sicura conoscenza di essi sa rapportare ogni atto di scelta o di rifiuto al fine della salute del corpo e della tranquillità dell’anima, dal momento che questo è il fine della vita beata. Lettera a Meneceo 127-128
  • Per questo diciamo che il piacere è principio e fine del vivere felicemente. Lo consideriamo infatti come un bene primo e connaturato a noi, e da esso muoviamo nell’assumere qualsiasi posizione di scelta o di rifiuto. Lettera a Meneceo 128
  • Poiché il piacere è il bene primo e innato, non cerchiamo qualsiasi tipo di piacere, ma talora rifiutiamo molti piaceri quando ne seguirebbe per noi un dolore maggiore; e consideriamo anche molti dolori preferibili al piacere, per il piacere maggiore che in seguito deriva dall’averli lungamente sopportati.  Lettera a Meneceo 129
  • Consideriamo bene grande l’autosufficienza, non perché in ogni caso dobbiamo attenerci al poco, ma perché, se non abbiamo molto, dobbiamo saperci contentare del poco, schiettamente convinti come siamo che quelli che con maggior diletto godono dell’abbondanza sono proprio quelli che di essa hanno minor bisogno, e che tutto ciò ch’è secondo natura è facile a procacciarsi, ciò ch’è vano è difficile ad ottenersi.  Lettera a Meneceo 130
  • I cibi frugali danno lo stesso piacere che un cibo sontuoso, una volta che sia eliminato il dolore che viene dal bisogno; una focaccia e un sorso d’acqua danno il più alto piacere a chi li gusti avendone realmente bisogno.  Lettera a Meneceo 130 – 131
  • L’abituarsi ad un cibo semplice e non sontuoso da un lato da salute, dall’altro rende l’uomo solerte nelle occupazioni necessarie della vita; e quando, di tanto in tanto, ci accostiamo a ricche mense, tale abitudine ci dispone meglio nei loro confronti e ci rende intrepidi dinanzi alla sorte. Lettera a Meneceo 131
  • Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapule, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano male; ma alludiamo all’assenza di dolore nel corpo, all’assenza di turbamento nell’anima. Lettera a Meneceo 131
  • Non è possibile vivere piacevolmente se non vivendo saggiamente e bene e giustamente, e di contro non è possibile vivere saggiamente e bene e giustamente se non anche piacevolmente. Le virtù sono infatti connaturate alla vita felice e questa è inseparabile dalle virtù. Lettera a Meneceo 132
  • Chi, quindi, potresti ritenere superiore a colui che ha pie credenze nei riguardi degli dei, non nutre alcun timore nei riguardi della morte, sa comprendere che cosa sia veramente il bene secondo natura, e sa che il sommo dei beni è facilmente raggiungibile e facile a conseguirsi, mentre il sommo dei mali ha breve durata o intensità lieve? Lettera a Meneceo 133
  • In verità sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dei che non rendersi schiavi di quel fato che predicano i fisici: quel mito, infatti, offre una speranza con la possibilità di placare gli dei con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile. Lettera a Meneceo 133-134
  • È preferibile cadere nella sfortuna con retta ragione che avere grande fortuna con stolto consiglio; è meglio infatti che fra le nostre azioni qualcuna pur compita con retto giudizio non sia condotta a buon fine dalla sorte piuttosto che un’azione senza retto giudizio sia condotta a buon fine dalla sorte. Lettera a Meneceo 135
  • Parla a vuoto chi afferma di non aver paura dell’attimo della morte, ma teme di dover morire prima o poi: è sciocco che quello che quando accade non ci fa soffrire ci faccia  invece soffrire mentre lo aspettiamo.
    Lettera a Meneceo
  • Non indugi il giovane a filosofare, né il vecchio se ne stanchi. Nessuno è mai troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima. Chi dice che l’età per filosofare non è ancora giunta o è già trascorsa, è come se dicesse che non è ancora giunta o è già trascorsa l’età per la felicità. Lettera a Meneceo 122
  • Devono filosofare sia il giovane sia il vecchio; questo perché, invecchiando, possa godere di una giovinezza di beni, per il grato ricordo del passato; quello perché possa insieme esser giovane e vecchio per la mancanza di timore del futuro. Lettera a Meneceo 122
  • Bisogna dunque esercitarsi in ciò che può produrre la felicità: se abbiamo questa possediamo tutto: se non l’abbiamo, cerchiamo di fare di tutto per possederla. Lettera a Meneceo 122
  • Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene ed ogni male risiede nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione. Perciò la retta conoscenza che la morte non è niente per noi rende gioiosa la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitamente il tempo, ma sopprimendo il desiderio dell’immortalità. Lettera a Meneceo 124
  • Nulla c’è di temibile nel vivere per chi si sia veracemente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più. E così anche stolto è chi afferma di temere la morte non perché gli arrecherà dolore sopravvenendo, ma perché arreca dolore il fatto di sapere che verrà: ciò che non fa soffrire quando sopravviene, è vano che ci addolori nell’attesa. Lettera a Meneceo 125
  • Ma il volgo ora fugge la morte come il più grande dei mali, ora invece la cerca come cessazione dei mali della vita. Il saggio, al contrario, non chiede di vivere né teme il non vivere: non è contrario alla vita, ma neanche ritiene che la morte sia un male. E così come del cibo non aspira al più abbondante ma al più gradevole, del tempo cerca di godere non il più lungo, ma il più dolce. Lettera a Meneceo 125-126
  • Occorre ricordare che il futuro non è del tutto nostro né del tutto al di fuori della nostra portata, e di conseguenza non aspettarci che si avveri del tutto né disperare che possa avverarsi. Lettera a Meneceo 127
  • Bisogna anche considerare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e tra quelli naturali alcuni sono anche necessari, altri naturali soltanto; tra quelli necessari poi alcuni lo sono in vista della felicità, altri allo scopo di eliminare la sofferenza fisica, altri ancora in vista della vita stessa. Una sicura conoscenza di essi sa rapportare ogni atto di scelta o di rifiuto al fine della salute del corpo e della tranquillità dell’anima, dal momento che questo è il fine della vita beata. Lettera a Meneceo 127-128
  • Una volta che ciò (la vita beata) sia stato raggiunto, si dissolverà ogni tempesta dell’anima, non avendo l’essere vivente altra esigenza da soddisfare né altro che possa render completo il bene dell’anima e del corpo. Abbiamo infatti necessità del piacere quando, per il suo mancarci, soffriamo; ma quando non soffriamo più, anche il bisogno del piacere viene meno. Lettera a Meneceo 128
  • Per questo diciamo che il piacere è principio e fine del vivere felicemente. Lo consideriamo infatti come un bene primo e connaturato a noi, e da esso muoviamo nell’assumere qualsiasi posizione di scelta o di rifiuto. Lettera a Meneceo 128
  • Poiché il piacere è il bene primo e innato, non cerchiamo qualsiasi tipo di piacere, ma talora rifiutiamo molti piaceri quando ne seguirebbe per noi un dolore maggiore; e consideriamo anche molti dolori preferibili al piacere, per il piacere maggiore che in seguito deriva dall’averli lungamente sopportati. Lettera a Meneceo 129
  • Ogni piacere è un bene per il fatto che ha natura a noi congeniale; non tutti i piaceri sono però da ricercarsi, come non tutti i dolori da fuggirsi, anche se il dolore è di sua natura un male. Bisogna giudicare in merito di volta in volta, in base al calcolo e alla considerazione dei vantaggi e degli svantaggi: giacché certe volte un bene viene ad essere per noi un male e un male per contro un bene. Lettera a Meneceo 129-130
  • Consideriamo bene grande l’autosufficienza, non perché in ogni caso dobbiamo attenerci al poco, ma perché, se non abbiamo molto, dobbiamo saperci contentare del poco, schiettamente convinti come siamo che quelli che con maggior diletto godono dell’abbondanza sono proprio quelli che di essa hanno minor bisogno, e che tutto ciò ch’è secondo natura è facile a procacciarsi, ciò ch’è vano è difficile ad ottenersi. Lettera a Meneceo 130
  • I cibi Frugali danno lo stesso piacere che un cibo sontuoso, una volta che sia eliminato il dolore che viene dal bisogno; una focaccia e un sorso d’acqua danno il più alto piacere a chi li gusti avendone realmente bisogno. Lettera a Meneceo 130-131
  • L’abituarsi ad un cibo semplice e non sontuoso da un lato da salute, dall’altro rende l’uomo solerte nelle occupazioni necessarie della vita; e quando, di tanto in tanto, ci accostiamo a ricche mense, tale abitudine ci dispone meglio nei loro confronti e ci rende intrepidi dinanzi alla sorte. Lettera a Meneceo 131
  • Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapule, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano male; ma alludiamo all’assenza di dolore nel corpo, all’assenza di turbamento nell’anima. Lettera a Meneceo 131
  • Non, dunque, le libagioni e le feste ininterrotte, ne il godersi fanciulli e donne, né il mangiare pesci e tutto il resto che una ricca mensa può offrire è fonte di vita felice; ma quel sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, e che scaccia le false opinioni, per via delle quali grande turbamento s’impadronisce dell’anima. Lettera a Meneceo 132
  • Non è possibile vivere piacevolmente se non vivendo saggiamente e bene e giustamente, e di contro non è possibile vivere saggiamente e bene e giustamente se non anche piacevolmente. Le virtù sono infatti connaturate alla vita felice e questa è inseparabile dalle virtù. Lettera a Meneceo 132
  • Chi, quindi, potresti ritenere superiore a colui che ha pie credenze nei riguardi degli dei, non nutre alcun timore nei riguardi della morte, sa comprendere che cosa sia veramente il bene secondo natura, e sa che il sommo dei beni è facilmente raggiungibile e facile a conseguirsi, mentre il sommo dei mali ha breve durata o intensità lieve? Lettera a Meneceo 133
  • E in verità sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dei che non rendersi schiavi di quel fato che predicano i fisici: quel mito, infatti, offre una speranza con la possibilità di placare gli dei con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile. Lettera a Meneceo 133-134
  • E credo che sia preferibile cadere nella sfortuna con retta ragione che avere grande fortuna con stolto consiglio; è meglio infatti che, fra le nostre azioni qualcuna pur compiuta con retto giudizio non sia condotta a buon fine dalla sorte piuttosto che un’azione senza retto giudizio sia condotta a buon fine dalla sorte. Lettera a Meneceo 135
  • Il limite estremo della grandezza dei piaceri è la rimozione di tutto il dolore. Dove sia il piacere, e per tutto il tempo che vi sia, non vi è posto per dolore fisico, o dell’anima, o per l’uno e l’altro insieme.
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