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Bancomat bloccato nello sportello atm: attento alla truffa
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Tra le tante truffe al bancomat eccone una finita sui banchi della Cassazione. La questione ha avuto un lieto fine per il cliente raggirato ma è anche un monito per quanti sono soliti fare prelievi in modo poco cauto ed insegna come comportarsi in caso di bancomat bloccato nello sportello atm. Ecco come si svolge il raggiro.
Il correntista si ferma al bancomat per il prelievo. Una volta però inserita la carta questa si blocca e non viene restituita. Un passante si avvicina con la scusa di aver avuto lo stesso problema pochi minuti prima, ma di essere riuscito a sbloccare l’apparecchio; così si offre di aiutarlo per recuperare la carta e lo invita a digitare nuovamente il pin. L’ingenuo malcapitato fa come gli viene detto, anche questa volta però senza successo. In realtà il passante è un truffatore che ha precedentemente manomesso lo sportello per impossessarsi della tessera. Cosa che farà non appena il truffato, persa la pazienza, si sarà allontanato dal luogo. Di lì a breve il conto subirà un prevedibile salasso.
La questione si sposta ora su un piano giuridico. La vittima chiede alla propria banca il rimborso delle somme prelevate dal criminale, ma questa gliele nega. La colpa è di chi cade nel raggiro e non certo dell’istituto di credito – sostiene il legale di quest’ultimo – che nessuna parte ha all’interno della (sia pur incresciosa) vicenda.
Chi è allora il vero responsabile della truffa (al di là, ovviamente, del malvivente il quale, con molta probabilità, sarà difficilmente rintracciabile)? La banca o l’incauto correntista che ha digitato il pin in presenza del gentile sconosciuto? Se il bancomat resta bloccato nello sportello atm è lecito attendersi un calo dell’attenzione da parte del proprietario della carta proprio a causa della situazione di emergenza e necessità che si è venuta a creare? La risposta è stata fornita in questi termini dalla Suprema Corte [1].
In generale il correntista ha sempre l’obbligo di custodia del pin del proprio bancomat; se lo perde o lo diffonde a terzi non può poi chiedere alcun rimborso alla banca. Ma ciò non toglie che, anche in caso di comportamenti scorretti da parte del titolare del bancomat e di conseguente truffa, la banca non possa essere dichiarata responsabile. In quanto intermediario del servizio, l’istituto di credito deve sempre agire nel migliore dei modi per garantire la sicurezza del cliente.
Nel caso in questione, la banca avrebbe dovuto vigilare meglio sul funzionamento dello sportello atm, per esempio controllando le videoregistrazioni subito dopo la segnalazione del correntista e fissando un limite di prelievi giornalieri in modo, almeno, da limitare i danni. Se quindi lo sportello era sprovvisto di qualsiasi forma di tutela, se l’istituto di credito non ha avvisato il proprio cliente – magari con un sms – dei prelievi che, prima del blocco della carta, il criminale stava facendo a sua insaputa è tenuta a restituire le somme risucchiate dal truffatore.
Il monito della Cassazione è abbastanza chiaro: a salvare il correntista, nel caso di specie, sono stante le mancanze della sua banca. Ma se quest’ultima si fosse comportata correttamente, la truffa sarebbe rimasta senza tutela e il cliente non avrebbe mai ricevuto il maltolto.
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[1] Cass. sent. n. 806/16 del 19.01.2016.
Assegni garantiti ai lavoratori dipendenti dal Fondo di integrazione salariale: chi ne ha diritto, come richiederli, a quanto ammontano.
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Sei un lavoratore dipendente e la tua azienda attraversa un periodo di crisi, ma non rientra tra quelle che possono beneficiare della cassa integrazione? Forse non sai che, dal 2016 [1], tutte le aziende con almeno 5 dipendenti sono obbligate ad aderire a un fondo di solidarietà che possa garantire integrazioni salariali ai lavoratori. Se non aderiscono volontariamente a un fondo, sono comunque obbligate ad aderire al Fis, il Fondo di integrazione salariale dell’Inps: il fondo garantisce le prestazioni di sostegno al reddito dell’ assegno di solidarietà e dell’assegno ordinario.
Queste prestazioni sono dunque erogate ai dipendenti delle aziende che non rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione ordinaria e straordinaria, e che non hanno costituito fondi di solidarietà bilaterali.
Chi è tutelato dal Fondo d’integrazione salariale
Il Fondo d’integrazione salariale dell’Inps tutela, come anticipato, le aziende non coperte da cassa integrazione ordinaria e straordinaria: la tutela è estesa ai datori di lavoro che occupano mediamente più di cinque dipendenti, garantendo a questi ultimi l’assegno di solidarietà.
Se, invece, il datore di lavoro occupa più di 15 dipendenti, il fondo eroga anche l’assegno ordinario.
Quando si ha diritto all’assegno ordinario
L’assegno ordinario è garantito nel caso in cui l’azienda riduca o sospenda l’attività lavorativa: sono escluse le interruzioni dell’attività causate da intemperie stagionali, e le interruzioni da riorganizzazione aziendale e crisi.
L’assegno ordinario ha una durata massima di 26 settimane in un biennio mobile: l’importo è pari all’integrazione salariale, cioè all’80% della retribuzione globale che sarebbe spettata al dipendente per le ore di lavoro non prestate, comprese fra le ore zero e il limite dell’orario contrattuale.
L’importo versato è ridotto del 5,84%, ossia dei contributi a carico del lavoratore: la riduzione resta, però, nella disponibilità del Fondo.
Quando si ha diritto all’assegno di solidarietà
L’assegno di solidarietà è una prestazione che può essere riconosciuta solo se è presente un accordo collettivo aziendale che stabilisce una riduzione dell’orario dei lavoratori: la riduzione oraria deve essere finalizzata a evitare o ridurre le eccedenze di personale, sia sotto forma di licenziamento collettivo, che di licenziamenti plurimi individuali.
La riduzione media oraria non può, comunque, essere superiore al 60% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile dei lavoratori interessati, né superiore al 70% nell’arco dell’intero periodo per il quale l’accordo di solidarietà è stipulato.
Come si presenta la domanda di assegno di solidarietà
Le domande di accesso all’assegno di solidarietà devono essere inviate dall’azienda, entro 7 giorni dalla conclusione dell’accordo collettivo; la riduzione di attività deve avere inizio entro il 30° giorno successivo alla data di presentazione della domanda.
Come si presenta la domanda di assegno ordinario
Le domande di assegno ordinario devono essere presentate non prima di 30 giorni e non oltre il termine di 15 giorni dall’inizio della sospensione o riduzione di attività lavorativa.
Se le domande sono presentate in ritardo, l’assegno non può coprire i periodi anteriori di una settimana rispetto alla data di presentazione (ossia può partire dal lunedì della settimana precedente).
Procedura per presentare le domande nel sito dell’Inps
La procedura di presentazione delle domande di accesso è unica, sia per l’assegno ordinario, che per quello di solidarietà: l’invio avviene, difatti, in modalità telematica, tramite il sito dell’Inps.
Per inviare correttamente le domande, è necessario:
- accedere al portale web dell’Inps con le credenziali dell’azienda o dell’intermediario che ha la delega, alla sezione “Servizi per aziende, consulenti e professionisti”;
- selezionare l’opzione “Cig e Fondi di solidarietà” ed in seguito la voce “Fondi di solidarietà’;
- compilare il form online di domanda, indicando il tipo di prestazione, il periodo, il numero dei lavoratori interessati e le ore di sospensione o riduzione di attività lavorativa;
- allegare alla domanda: l’accordo collettivo aziendale (in caso di assegno di solidarietà) che stabilisce la riduzione dell’orario di lavoro; la comunicazione dell’azienda, o il verbale di esame congiunto, o l’accordo sindacale (in caso di assegno ordinario); l’elenco dei lavoratori in forza all’unità produttiva, integrato con le informazioni inerenti alla qualifica e all’orario contrattuale;
- completata l’acquisizione e confermato l’invio, la domanda è protocollata, ed è possibile stampare la ricevuta di presentazione nonché il prospetto dei dati trasmessi.
La stima degli importi dovuti ai lavoratori è effettuata dall’Inps in base ai dati indicati dall’azienda.
L’istanza per l’assegno ordinario va inoltrata alla sede Inps competente, in relazione all’unità produttiva, non prima di 30 giorni e non oltre il termine di 15 giorni dall’inizio della sospensione o riduzione dell’attività lavorativa. I termini sono ordinatori.
Verifiche per la concessione dell’assegno
Per richiedere gli assegni di solidarietà è necessario allegare alla domanda delle specifiche schede [2].
La sede Inps competente deve infatti valutare la concessione delle prestazioni sulla base delle motivazioni indicate dai datori di lavoro nelle schede. Se le informazioni contenute nei moduli sono insufficienti o carenti, l’Inps può chiedere un’istruttoria aggiuntiva.
Secondo il Governo la Tari è illegittima sin dal 2014. Ecco come chiedere il rimborso
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La questione Tari, ossia il pasticcio delle bollette gonfiate in ordine alla quota variabiledel tributo, è ormai nota a tutti. Da tutte le parti interessate sono arrivate proteste e iniziative per richiedere il rimborso, anche se non erano chiare le modalità in cui procedere.
Ora arrivano le istruzioni del Governo: il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con una circolare [1] precisa che i rimborsi della Tari illegittimamente applicata su box e cantine possono esser chiesti sin dall’anno 2014, data di nascita del tributo. Così sembrerebbero recuperabili le quote pagate in eccesso dai contribuenti. La circolare, oltre che ai contribuenti, è rivolta ai Comuni i quali, dunque, non possono discostarsi dalle regole operative indicate dal Ministero.
Il Ministero chiarisce che la quota variabile della Tari va applicata una sola volta in relazione alla superficie totale dell‘utenza domestica e pertanto quanto pagato illegittimamente in eccesso deve essere restituito ai contribuenti. Tuttavia, esclude qualsiasi forma di restituzione automatica e, pertanto, gli interessati devono presentare apposita domanda. Da quanto emerge dalle istruzioni del Ministero non è possibile richiedere le somme pagate in eccesso negli ultimi 5 anni. Infatti, sebbene sia di 5 anni il termine di prescrizione del tributo, la circolare esclude la possibilità di avanzare richiesta di rimborso per il 2013, quando era in vigore un altro tributo.
Come presentare la domanda di rimborso?
Il Ministero precisa nella circolare che per chiedere il rimborso di quanto pagato in eccesso è sufficiente che il contribuente ne faccia apposita richiesta. Non è necessaria l’osservanza di alcuna formalità, per cui la richiesta può essere presentata in carta semplice. Ciò che è fondamentale è la chiara indicazione dei dati necessari a identificare il contribuente, l’importo versato e quello di cui si chiede il rimborso nonché i dati identificativi della pertinenza che è stata computata erroneamente nel calcolo della Tari. Pertanto, laddove il contribuente riscontri un errato calcolo della quota variabile effettuato dal comune o dal gestore del servizio rifiuti, può richiedere il rimborso del relativo importo, solo relativamente alle annualità a partire dal 2014, anno in cui la Tari è stata istituita [2].
Tari gonfiata: l’origine del problema
Ma qual è stato l’errore che ha causato il caos e l’illegittimo pagamento della Tari a discapito dei contribuenti? Vediamo in estrema sintesi l’origine del problema. La Tari si compone di una parte fissa ed una variabile. La parte fissa viene calcolata moltiplicando i metri quadrati dell’immobile (si considera al riguardo la superficie calpestabile), comprese le pertinenze (come la cantina o il garage). È palese che più grande è la casa, più alta sarà la somma da versare.
La quota variabile, invece, cambia in base al numero dei componenti della famiglia; essa è rapportata alla quantità di rifiuti che presumibilmente viene prodotta da colui o da coloro che risiedono nell’immobile in questione. Dunque, più sono i componenti della famiglia, maggiori saranno i rifiuti presumibilmente prodotti, più alta sarà l’imposta da pagare.
Tuttavia, ed ecco qui l’errore, qualora l’abitazione abbia anche delle pertinenze (come la cantina o il garage), la superficie delle pertinenze deve essere sommata alla superficie concernente l’abitazione principale. Una volta compiuta tale operazione, si deve procedere all’applicazione delle tariffe. In sostanza, dunque, la quota variabile si dovrebbe calcolare una sola volta, vale a dire con riferimento all’intera abitazione comprensiva anche delle sue pertinenze. I Comuni, invece, hanno frequentemente calcolato illegittimamente la Tari, dividendo l’abitazione dalle sue pertinenze e applicando ad ognuna di esse (separatamente) la quota variabile. In base a tale calcolo il povero contribuente è stato costretto a corrispondere addirittura il doppio rispetto al dovuto.
note
[1] Circolare n. 1/2017 DF.
[2] dall’art. 1, comma 639, della legge n. 147 del 27.12.2013.
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