Un anno di Cassazione le sentenze più eclatanti dell’anno

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In un anno, la Cassazione emette diverse decine di migliaia di provvedimenti tra ordinanze e sentenze. Anche gli operatori del diritto, come i giudici e gli avvocati, fanno difficoltà a leggerle tutte, anche se solo per estratti; una necessità comunque che non sussiste sempre, visto che spesso la Corte è chiamata a ribadire concetti consolidati e scontati per il diritto. Per restare aggiornati con la giurisprudenza è sufficiente leggere solo le sentenze della Cassazione più importanti, quelle cioè che modificano le precedenti interpretazioni, che meglio le chiariscono o che, per la prima volta, affrontano un problema prima mai risolto. Ma come si fa a trovarle? Solo chi è un tecnico sa purtroppo individuarle grazie alle banche dati gratuite o a pagamento che si trovano su internet o su software dedicati (peraltro particolarmente costosi). Ai semplici curiosi non restano che i giornali tradizionali (tra tutti, il Sole24Ore è sicuramente il migliore) o i siti di aggiornamento giuridico come quello che stai leggendo ora. Proprio per questo, e per far in modo che tu sia certo che nulla ti sia sfuggito negli ultimi mesi, abbiamo voluto racchiudere in un unico articolo tutte le sentenze più eclatanti dell’anno, di modo che tu le possa consultare velocemente e aver chiari i principi nuovi, per come espressi, negli ultimi 365 giorni, dai giudici della Cassazione. Vediamo quindi singolarmente quali sono queste pronunce.

Addio assegno di divorzio

Sicuramente la sentenza che, quest’anno, passerà alla storia è quella che ha riscritto le regole sull’assegno di divorzio: non più rivolto a garantire lo stesso tenore di vita che aveva la coppia durante il matrimonio, ma solo il necessario per mantenersi da solo. Il che significa che se già il coniuge dispone di questo “stretto indispensabile” (che, secondo il tribunale di Milano corrisponde a mille euro mensili), nessun mantenimento gli è dovuto. Le nuove regole sull’assegno di mantenimento sono state scritte dalla Cassazione con la sentenza n. 11504/17 del 10 maggio 2017. Dopo ventisette anni, la Cassazione ha superato l’orientamento tradizionale sul mantenimento che collegava la misura dell’assegno in favore del coniuge debole al tenore di vita matrimoniale. Il nuovo parametro per calcolare l’assegno di mantenimento viene individuato nel raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente: se quest’ultimo è economicamente indipendente o è effettivamente in grado di esserlo (per età e condizioni di salute), non ha più diritto ad ottenere l’assegno di mantenimento. Senza contare che, oramai da qualche anno, è stato messo nero su bianco il principio secondo cui, nel momento in cui il coniuge beneficiario del mantenimento va a convivere stabilmente con un’altra persona, perde il diritto all’assegno.

Sulle donazioni con bonifico si pagano le tasse

Ha fatto scalpore – e continua a suscitare perplessità – la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 18725 del 27 luglio 2017 secondo cui i regali di denaro fatti tra parenti con bonifico sono nulle anche se finalizzate all’acquisto di una casa o di un’auto. Difatti, affinché la donazione possa essere valida deve necessariamente avvenire con 1) atto notarile, in presenza di due testimoni (in tal caso si realizza la forma della cosiddetta «donazione diretta» sulla quale però bisogna pagare, oltre al compenso al notaio, anche le imposte sulla donazione; 2) oppure, in alternativa, nel successivo atto di acquisto del bene, è necessario specificare che i soldi con cui si paga il prezzo sono stati versati, dal familiare, sul conto dell’acquirente (in tal caso si realizza una «donazione indiretta» e non c’è bisogno né del notaio, né del pagamento delle imposte di donazione). Per maggiori approfondimenti leggi Donazione di denaro per acquisto casa: come si fa.

L’avvocato, il compenso e la Cassa forense

Con l’ordinanza n. 548 dell’11 gennaio 2017, la Cassazione ha detto che, in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti dell’avvocato, si configura una vera e propria competenza funzionale dell’ufficio giudiziario adito per il processo in cui il legale svolge la sua prestazione. Tali controversie, stabilisce di conseguenza la Suprema Corte, devono essere trattate con rito sommario di cognizione, anche nell’ipotesi in cui la domanda riguardi l’esistenza della pretesa, escludendo la possibilità per il giudice di trasformare tale rito in ordinario o dichiarare l’inammissibilità della domanda. La sentenza ha così chiarito la portata dell’articolo 14, d.lgs. n. 150/2011 secondo il quale «il Tribunale decide le controversie in materie di compensi per gli avvocati sempre “in composizione collegiale”, rientrando tali controversie nella riserva prevista per i procedimenti in camera di consiglio dall’art. 50-bis, comma 2, c.p.c.».

Per rimanere nell’ambito del mondo forense, qualche timore ha forse suscitato l’approfondimento relativo al rapporto annuale Censis sull’avvocatura: 100mila avvocati devono cancellarsi dall’albo. Ma da Cassa Forense sono giunte anche buone notizie. Ed infatti il Comitato dei Delegati in data 29 settembre ha approvato una delibera relativa al contributo integrativo minimo. Leggi Cassa avvocati: addio contributo integrativo minimo.

Incidenti stradali: si cambia

Quest’anno è cambiato il metodo per avere il risarcimento in caso di incidenti stradali. Con il decreto concorrenza approvato la scorsa estate, è stato posto un grosso limite sul valore del testimone in causa. Ma le nuove norme – specie quelle sulla scatola nera – sono state già poste al vaglio della Corte Costituzionale con il sospetto che possano essere contrarie al diritto alla difesa. Il sospetto di incostituzionalità nasce soprattutto dal fatto che la norma (l’articolo 1, comma 20, della legge 124/2017) attribuisce il valore di piena prova dei fatti alle risultanze del dispositivo, «salvo che la parte contro la quale sono state prodotte dimostri il mancato funzionamento o la manomissione del predetto dispositivo» (e la realtà ha dimostrato che casi del genere sono tutt’altro che teorici).

Ricordiamo che, con le nuove regole, chi chiede il risarcimento alla propria assicurazione per un incidente stradale con danni solo alle auto e non alle persone (conducenti e trasportati) deve subito indicare i testimoni che hanno assistito allo scontro; se non lo fa, sarà l’assicurazione a ricordarglielo con una raccomandata da inviare entro 60 giorni dalla denuncia di sinistro ed a cui l’assicurato deve rispondere nei successivi 60 giorni. In caso di mancata indicazione, si perde il diritto a chiedere la prova testimoniale nella successiva ed eventuale causa che dovesse essere intrapresa contro la compagnia che abbia negato il risarcimento o abbia accordato un importo inferiore rispetto a quello preteso. L’obiettivo è quello di evitare testimoni di comodo.

Solo in tre casi si può ugualmente chiamare un testimone che non sia stato indicato nella denuncia di sinistro:

  • se, nell’immediatezza del fatto, vi è stata una oggettiva impossibilità all’identificazione dei testimoni;
  • se i testimoni sono stati comunque identificati dalla polizia;
  • in tutti gli incidenti con danni alle persone e non solo ai mezzi.

Permessi legge 104: buone notizie

Buone notizie per i titolari della legge 104: non c’è bisogno di convivere con il familiare disabile per chiedere il trasferimento in un’altra città più vicina. Inoltre il diritto alla scelta del posto di lavoro spetta non solo al momento dell’assunzione ma anche successivamente, in corso di esecuzione del rapporto con l’azienda. Il datore di lavoro che nega l’avvicinamento richiesto dal dipendente deve provare le circostanze ostative al suo esercizio ossia la sussistenza di ragioni di natura organizzativa, tecnica o produttiva, che impediscono di accogliere la richiesta di un’assunzione, o anche di trasferimento, presso una sede di lavoro vicina al domicilio della persona disabile che si assiste. È quanto chiarisce la Cassazione con l’ordinanza n. 23857 dell’11 ottobre 2017.

Tirare sassi contro le auto non è più reato

Tirare tassi contro un’auto non è reato se il proprietario è nelle dirette vicinanze del mezzo. Si tratta infatti di un danneggiamento che rientra tra le condotte di recente depenalizzate. È quanto chiarito dalla Cassazione con la sentenza n. 46585/17 dell’11.10.2017. Perché mai? Dall’anno scorso il danneggiamento non è più reato. Il reato resta però reato se il bene viene «esposto alla pubblica fede» ossia quando l’oggetto è lasciato senza una custodia continua, come nel caso in cui l’auto sia stata parcheggiata sul ciglio della strada pubblica. Secondo il ragionamento della Cassazione, quando il proprietario dell’auto è nei paraggi o dentro l’abitacolo, il bene non può più dirsi «esposto alla pubblica fede»; al contrario esso rimane sotto la custodia del titolare. Non scatta quindi l’aggravante e il comportamento rientra nelle ipotesi depenalizzate.

Si licenzia anche senza crisi

Si rafforza il filone interpretativo secondo cui affinché il licenziamento per riduzione del personale possa essere valido (cosiddetto “giustificato motivo soggettivo”) non è necessario che il datore di lavoro dimostri la crisi e, quindi, la necessità di tagliare i posti per ridurre le perdite; si può, al contrario, licenziare anche per una precisa scelta aziendale di rendere più efficiente la produzione e, quindi, aumentare i profitti.

Entrare in casa altrui per una notte non è reato

Secondo la sentenza n. 40827/2017 della Cassazione, l’abusivo che occupa casa altrui per ripararsi dal freddo e dal ghiaccio non può essere denunciato. Sussiste infatti la legittima giustificazione dettata dalla necessità di salvare sé o i familiari dal pericolo attuale di un danno grave alla persona e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile. È proprio il caso del senzatetto. Lo «stato di necessità» – dettato da una situazione improvvisa, incontrollabile e incolpevole – scrimina dal reato ed esime dal risarcimento del danno. La scelta di occupare una casa in una notte particolarmente rigida risulta quasi obbligata, poiché frutto di «particolari condizioni di emarginazione» e della necessità di «reperire un alloggio notturno» e «ripararsi dai rigori dell’inverno». Così, se un giorno vai a fare una ricognizione nella tua casa di campagna e là trovi una famiglia di rom che si è barricata dentro per non morire di freddo in una notte invernale e tempestosa, è inutile che chiami la polizia e che sporgi denuncia: non c’è reato.

Allo stesso modo, in passato la Cassazione aveva detto che anche rubare per fame non è reato. Non scatta la condanna penale per chi viene pescato a rubare per necessità, anche se il reo è recidivo e ha già commesso il fatto più volte: opera infatti la cosiddetta “causa di giustificazione” prevista dal codice penale.

Fingere per conquistare una donna è violenza sessuale

La sostituzione di persona si realizza quando un tale si attribuisce un nome o una qualità che non gli è propria. Così spacciarsi per il capo di una società, quando invece si è solo un dipendente, è reato. Se però tale finzione viene messa in atto solo per andare a letto con una collega, che magari fa affidamento sulla posizione importante dell’uomo onde fare carriera, scatta la violenza sessuale. A dirlo è la sentenza n. 55481 del 13 dicembre scorso della Cassazione. La Corte ricorda che il codice penale sanziona la violenza sessuale anche quando questa viene posta in essere tradendo in inganno la vittima per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Questo non significa solo far credere di essere una persona che non si è (Mario, ad esempio, spinge a credere di essere Giovanni), ma anche attribuirsi delle qualità o uno stato che non si ha. Difatti, il consenso al rapporto sessuale non deve coprire solo l’atto in sé ma anche l’identità della persona con cui lo si pone in essere. Vien da sé che se la persona è diversa (ipotesi di scambio fisico) o non ha le caratteristiche che la stessa ha fatto dolosamente credere all’altra con l’astuzia, non c’è alcun consenso da parte di quest’ultima. Pertanto scatta la violenza sessuale.

Occhio ai post su Facebook

La Cassazione ha ribadito anche quest’anno la pericolosità dei social network: con la sentenza n. 50 del 2 gennaio 2017, i giudici hanno ricordato che chi offende qualcuno attraverso un post o un commento su Facebook commette il reato di diffamazione aggravata: Facebook, infatti, al pari di qualsiasi altro social network, è ritenuto un «mezzo di pubblicità» per via della facile e rapida diffusione dei suoi contenuti.

Parcheggiare stretto è reato

Chi parcheggia così vicino alla tua auto, tanto da impedirti di aprire lo sportello di guida ed entrare, commette reato. Secondo la sentenza n. 53978/17 del 30.11.2017, è violenza privata il parcheggio dell’auto tanto accostato ad un’altra macchina da non consentire al conducente di scendere o salire dal suo lato (evidentemente non conta che sia possibile dal lato passeggero vista la scomodità nel passare da un sedile all’altro, specie per chi ha una corporatura robusta). Il principio non è nuovo; è nuova solo l’applicazione e il caso. Già in passato la Cassazione ha più volte ripetuto che parcheggiare la propria macchina in modo da sbarrare la strada al garage, al box auto, al cortile del condominio o a qualsiasi altro spazio privato, impedendo al legittimo titolare di accedervi o reimmettersi sulla vita pubblica costituisce violenza privata. Allo stesso modo, lasciare la macchina a pochi centimetri da un’altra ferma, impedendo così al conducente di quest’ultima di poter regolarmente entrare o uscire dal proprio sportello configura violenza privata.

Elezioni politiche 4 marzo ? che succede fino al voto.

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Non si tratta di elezioni anticipate ma quasi. La XVII Legislatura si doveva concludere il 14 marzo 2018 ma si concluderà dieci giorni prima, il 4 marzo, quando gli italiani saranno chiamati alle urne per rinnovare i due rami del Parlamento ed arrivare alla nomina di un nuovo Governo.

Che succede fino al voto per le elezioni politiche del 4 marzo? Qual è l’iter dettato dalla nostra Costituzione per porre fine all’attuale Legislatura? Dallo scioglimento delle Camere fino all’insediamento del Parlamento e del Governo, chi amministra il Paese? Quanto dura la campagna elettorale? Vediamo.

Elezioni 4 marzo: che significa lo scioglimento delle Camere?

In base alla facoltà che gli concede l’articolo 88 della Costituzione, il presidente della Repubblica (Sergio Mattarella) convoca al Quirinale i presidenti Senato e Camera (in questo caso, rispettivamente, Pietro Grasso e Laura Boldrini) e, successivamente, scioglie i due rami del Parlamento con un decreto controfirmato dal presidente del Consiglio (fino alla fine di questa Legislatura, Paolo Gentiloni).

Che succede fino al voto? Il Parlamento perde i suoi poteri? In un certo sì, ma senza che ci sia un vuoto di potere. La Costituzione pensa anche ad evitare questa eventualità, consentendo alle Camere, anche dopo lo scioglimento, di esercitare temporaneamente il proprio ruolo fino all’insediamento del nuovo Parlamento. In pratica, Camera e Senato si occupano di garantire la normale amministrazione o di affrontare una situazione di emergenza. Quello che, invece, il Parlamento non può fare in questa fase di «limbo» è eleggere un nuovo presidente della Repubblica.

Sciolte le Camere, tocca al presidente del Consiglio salire al Quirinale – eventualmente accompagnato dal ministro dell’Interno – per firmare il decreto che indice le elezioni politiche. Quel decreto viene, poi, portato in Consiglio dei Ministri per fissare la data inaugurale del nuovo Parlamento che, in base all’articolo 61 della Costituzione, non deve essere oltre i 20 giorni dal voto. Quindi, e poiché le elezioni si tengono i 4 marzo, l’insediamento delle nuove Camere non deve avvenire oltre il 23 marzo.

Elezioni politiche 4 marzo: quanto dura la campagna elettorale?

Questa è una domanda che fa spesso sorridere. La campagna elettorale, cioè quell’insieme di attività di propaganda che si svolgono per promuovere idee e candidati dei diversi partiti, deve durare ufficialmente trenta giorni e concludersi due giorni prima del voto.

Vuol dire che, in vista delle elezioni politiche del 4 marzo, la campagna dovrebbe iniziare il 2 febbraio (mese che nel 2018 porta 29 giorni) e finire il 2 marzo. Trenta giorni giusti giusti di calendario. Il 3 marzo, cioè il giorno prima del voto, è la cosiddetta giornata del silenzio o il giorno di riflessione in cui non è consentito fare dei comizi o dei proclami elettorali.

Perché il fatto di chiedersi quanto dura la campagna elettorale fa sorridere? Perché per molti (e, a ben vedere non avrebbero tutti i torti) la campagna elettorale ha una data ufficiale di chiusura ma mai di apertura. Quasi tutti i politici (dire «quasi» è usare una forma di cortesia più che di prudenza) sfruttano mesi prima microfono e taccuini per portarsi avanti, per iniziare a vendere agli elettori idee e programmi e per screditare l’avversario. Quindi, la pratica supera l’ufficialità: la campagna elettorale si sa quando finisce, ma mai quando inizia. Sono cose della politica, vero?

Che succede dopo le elezioni politiche del 4 marzo?

Dopo il voto, il presidente della Repubblica dà il via ad un giro di consultazioni con i leader dei partiti con rappresentanza parlamentare. Il Capo dello Stato affida, di norma, all’esponente politico del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni l’incarico per la formazione di un nuovo Governo.

Il presidente del Consiglio incaricato dal Quirinale apre una trattativa con le forze politiche per esporre il suo programma e sondare l’appoggio dei leader politici. In definitiva, per cercare una coalizione che tenga in piedi nel modo più solido possibile il suo Governo. Se, a suo avviso, i presupposti ci sono, si rimette alla fiducia del Parlamento. Altrimenti, rinuncia all’incarico.

Se il premier incaricato ritiene di essere in grado di formare un nuovo Governo che possa ottenere la fiducia del Parlamento, dopo averlo comunicato al Capo dello Statoviene nominato con decreto presidente del Consiglio, sceglie e rende pubblica la sua squadra di Governo e, insieme ai suoi ministri, presta giuramento al Quirinale.

Affinché il nuovo Governo sia pienamente operativo, deve ottenere la fiducia dei due rami del Parlamento, cioè della Camera e del Senato, entro 10 giorni dalla data del giuramento. Il presidente del Consiglio espone nelle aule di Palazzo Madama e di Montecitorio il suo programma. Dopo la discussione tra i vari gruppi parlamentari, sarà la votazione finale ad approvare o a bocciare le linee guida del nuovo Governo che, a meno di brutte sorprese, dovrà restare in carica per 5 anni.

Quando iniziò tutto, tra Israele e Palestina

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Prima del 1947, prima della risoluzione dell’ONU: accadde nell’aprile del 1936, ottant’anni fa, con l’uccisione di due commercianti di pollame

Il 15 aprile del 1936, circa ottant’anni fa, è forse la data che si avvicina di più a una data di inizio del conflitto tra ebrei e arabi in Palestina. Erano successe molte cose prima, e ne capitarono moltissime altre dopo, ma quello che avvenne quel giorno è considerato da molti esperti e storici uno spartiacque, nonché il momento in cui gli israeliani presero consapevolezza del fatto che i problemi con gli arabi della Palestina sarebbero stati risolti solamente con la forza. Per capire cosa accadde quel giorno, bisogna fare qualche passo indietro.

Nel 1904 Israel Zangwill, uno dei più famosi scrittori ebrei del primo Novecento, pronunciò un famoso discorso a New York argomentando la necessità che il popolo ebraico, da secoli sparpagliato nei vari paesi europei, occupasse con la forza la Palestina, che gli ebrei da sempre considerano la “terra promessa” donata loro da Dio. Zangwill in particolare riteneva che fosse necessario conquistare la Palestina con la violenza, «per cacciare con la spada le tribù che la posseggono, come hanno fatto i nostri padri». Un movimento politico e culturale che sosteneva una maggiore presenza ebraica in Palestina esisteva già da decenni, e fra Ottocento e Novecento erano nate diverse comunità ebraiche in Palestina: ma all’epoca i vertici del movimento sionista erano composti perlopiù da intellettuali e filantropi della borghesia europea, e raramente aveva preso forme così violente. A causa delle sue posizioni Zangwill fu espulso dal movimento sionista, e venne riammesso solamente anni più tardi, nonostante continuasse a mantenere posizioni ugualmente radicali.

Qualche anno dopo, nel 1918, David Ben Gurion – il futuro primo premier di Israele – criticò aspramente Zangwill e le sue posizioni sostenendo in un articolo della rivista Yiddishe Kemper che espropriare gli abitanti della Palestina «non è l’obiettivo del sionismo. […] Per nessuna ragione dobbiamo ledere i diritti dei suoi abitanti. Solo gente come Zangwill può immaginare che la Terra di Israele sarà data agli ebrei assieme al diritto di espropriare gli attuali abitanti». Diciotto anni dopo, arabi ed ebrei combatterono il primo vero scontro di una guerra in corso ancora oggi: fra il 1936 e il 1939 gli abitanti arabi della Palestina si ribellarono contro il “mandato” locale del Regno Unito – una specie di protettorato – soprattutto perché secondo loro avvantaggiava troppo i nuovi immigrati ebrei. L’inizio della cosiddetta “Grande rivolta araba”, il nome che si dà alle rivolte di quei tempi, si fa risalire proprio al 15 aprile 1936.

Nel primo trentennio del Novecento, un numero sempre maggiore di ebrei compì loaliyah –  cioè in ebraico “l’ascesa”, il “ritorno” – in territorio palestinese, dove comprava terreni dai proprietari arabi, bonificava paludi e zone deserte per costruire kibbutz – cioè comunità egalitarie dove la proprietà privata era molto rara – scuole e altre istituzioni ebraiche. I più ottimisti fra i sionisti pensavano che la convivenza sarebbe stata pacifica, e che gli arabi avrebbero lentamente accettato di rimanere una minoranza in Palestina; quelli pessimisti pensavano che il flusso continuo di ebrei europei li avrebbe costretti a migrare nei paesi arabi confinanti come la Siria, la Giordania e il Libano.

Per molti ebrei arrivati in Israele, comunque, gli autoctoni di etnia araba non erano il problema principale: da quando nel 1917 l’Impero inglese, che aveva una specie di protettorato sulla Palestina, riconobbe la legittimità di istituire uno stato ebraico, gli israeliani si dedicarono soprattutto a mettere in piedi un sistema economico stabile e di ispirazione socialista – puntando moltissimo per esempio sulla coltivazione e il commercio di agrumi – e a dotarsi delle prime istituzioni statali (la nota Università ebraica di Gerusalemme fu fondata nel 1918). All’epoca circa il 90 per cento della popolazione palestinese era di etnia araba.

Negli anni successivi ci furono numerosi esempi di tolleranza, se non di convivenza pacifica, fra arabi ed ebrei. A Lidda, un’antica colonia greca poi diventata una cittadina araba situata a 20 chilometri da Tel Aviv, il medico ebreo tedesco Siegfried Lehman fondò nel 1927 un collegio per ragazzi ebrei molto rispettato dai vicini paesi arabi: Lehman forniva cure mediche agli abitanti dei villaggi arabi, i ragazzi del collegio andavano spesso in gita negli stessi villaggi e nel collegio era stata istituita una “fiera” per celebrare e studiare la cultura araba. Nel 1947, vent’anni dopo la sua fondazione, il collegio di Lehman aveva circa un migliaio di studenti, ed era uno dei più attivi della Palestina ebraica.

Nel suo recente libro La mia terra promessa, l’editorialista di Haaretz Ari Shavit ha raccontato che anche a Rehovot, il piccolo paese israeliano in cui è nato nel 1957, esistevano simili forme di convivenza pacifica fra arabi e israeliani. Scrive Shavit:

Proprio come a Rehovot, anche Zarnuga [il villaggio arabo da cui ai tempi proveniva metà della forza lavoro di Rehovot] si sta sviluppando rapidamente. […] Negli ultimi dieci anni la popolazione del villaggio è aumentata, raggiungendo le 2.400 unità; negli ultimi cinque anni anche la superficie occupata dagli aranceti è raddoppiata, e ora è pari a 2.555 dunam (un’unità di misura araba pari a un chilometro quadrato) in dieci anni i prezzi degli immobili sono decuplicati. Lavorando e trascorrendo la maggior parte del tempo a Rehovot, molti dei suoi abitanti hanno imparato tante cose. Ora sanno guidare i trattori, azionare le pompe dei pozzi e coltivare gli aranceti secondo le tecniche più recenti. Costruiscono moderne case di pietra sempre più simili a quelle di Rehovot. Nell’insediamento arabo comprano giacche di taglio occidentale, mobili, pentole e padelle prodotti in Occidente, alimenti in scatola, medicine e cibo per bambini.

Così, nell’autunno del 1935, il coltivatore di arance [israeliano] può pensare che la questione araba non sia affatto una questione. Gli arabi che lavorano per lui non sono un problema […]. Rehovot cresce, e di pari passo anche Zarnuga. Rehovot si arricchisce, e così Zarnuga. Ogni mattina, quando i braccianti del villaggio arrivano davanti al cancello dell’aranceto, sembra che tutto vada per il meglio. E ogni giorni, quando decine di ragazzini di Zarnunga arrivano a Rehovot in sella alle loro biciclette, sembra non esservi nulla di cui preoccuparsi.

In realtà fra gli anni Venti e Trenta la situazione si era fatta sempre più tesa: gli ebrei continuavano ad arrivare in Palestina a migliaia, e a comprare terreni e fondare kibbutz. La crisi economica mondiale del 1929 aveva messo in difficoltà soprattutto gli agricoltori arabi, che avevano perso il lavoro o erano stati costretti a vendere i propri terreni agli ebrei, che disponevano di ingenti risorse provenienti dall’Europa. Per reazione a tutto questo – le cattive condizioni economiche della Palestina araba e l’avanzata del progetto sionista – i nazionalisti palestinesi si organizzarono in associazioni nazionaliste e brigate para-militari, criticando l’immigrazione ebraica e il progetto sionista per volersi imporre su una terra che consideravano di loro proprietà.

Il primo grande scontro avvenne nel 1929: a fine agosto si sparse la voce che gli ebrei in Palestina avrebbero cercato di ottenere il controllo del Muro del Pianto, un luogo considerato parte dell’antichissimo tempio ebraico distrutto dai Romani. Il Muro si trova però appena sotto alla Spianata delle Moschee, la cui più importante è la moschea di al Aqsa, costruita nel luogo dove secondo l’Islam il profeta Maometto salì in cielo. A seguito delle voci, la popolazione araba attaccò diversi abitanti ebrei della Palestina: negli scontri dei giorni successivi morirono circa 130 ebrei – metà dei quali a Hebron, una città a maggioranza araba che oggi si trova in Cisgiordania e ancora oggi molto pericolosa – e quasi altrettanti arabi. Lo storico James L. Gelvin, che ha scritto un apprezzato manuale storico sul conflitto israelo-palestinese, ha descritto molto bene la situazione di quegli anni dal punto di vista degli arabi palestinesi:

Più ebrei arrivavano in Palestina, più gli agenti sionisti acquistavano terra. I prezzi dei terreni agricoli balzarono alle stelle, e non pochi proprietari terrieri [arabi] residenti in città decisero di fare il colpo gobbo vendendo le loro terre al Fondo nazionale ebraico. [Quando anche] le grandi proprietà terriere cominciarono a scarseggiare, allora gli agenti sionisti cominciarono ad acquistare piccoli appezzamenti, sia direttamente, sia rilevandoli dagli usurai. Entrarono così in contatto con un numero sempre maggiore di palestinesi che vivevano al limite della sopravvivenza. Nel 1931, gli acquisti di terra da parte dei sionisti avevano comportato l’espulsione di circa ventimila famiglie contadine dalle loro terre. Nel giro di pochi anni, la percentuale di agricoltori palestinesi senza terrà raggiungerà il 30 per cento. Inoltre, il 75-80 per cento dei proprietari disponeva di appezzamenti insufficienti per la sopravvivenza. Il sionismo, in precedenza qualcosa di decisamente astratto per molti abitanti autoctoni della Palestina, era diventato una presenza tangibile.

Nell’ottobre del 1935 la situazione peggiorò ulteriormente: alla fine dell’anno un funzionario britannico scoprì nel porto di Giaffa – un’antica città a sud di Tel Aviv – un carico di armi destinato alla comunità ebraica in Palestina, nascosti in un carico di cemento partito dal Belgio. Dopo la scoperta, un popolare predicatore e capo militare islamico di nome Izz Abd al Kader Mustafa Yusuf ad Din al Kassam invocò la jihad contro la popolazione ebraica: nonostante la popolarità di al Kassam – che faceva leva sulla povertà e il risentimento della popolazione araba – in pochi si unirono alle sue brigate, e lo stesso al Kassam morì durante uno scontro con l’esercito britannico il 20 novembre 1935.

Si arrivò così al 15 aprile 1936, quando un gruppo di uomini armati occupò la strada di Tulkarem che porta a Tel Aviv. Ai primi passanti vennero chiesti dei soldi per la causa araba. Quando arrivarono due commercianti di pollame ebrei diretti a Tel Aviv, Israel Khazan e Zvi Dannenberg, la banda armata li derubò e li uccise. I giornali arabi dell’epoca, scrive Haaretz, raccontarono che un altro uomo tedesco che si trovava lì in quel momento venne lasciato andare: e che la banda armata gli disse “vai in pace, in nome di Hitler” (la contiguità fra capi islamisti in Palestina e dittatura nazista è tuttora oggetto di studi, benché sia data praticamente per certa). Rami Khazan, bis-bis nipote 64enne di Israel Khazan, ha detto ad Haaretz: «Gli fecero un’imboscata. Fu fermato al posto di blocco, e per orgoglio – che in quel caso può anche essere considerata irresponsabilità – affrontò la banda armata e disse loro: “eccomi qui, cosa potete farmi?”. E poi gli spararono».

Dopo l’uccisione di Khazan e Dannenberg, Haaretz uscì con un editoriale molto preoccupato in cui scriveva: «in questi giorni l’atmosfera è elettrica. L’umore delle masse è stato avvelenato da una propaganda totalmente ideologica, per la quale il fine giustifica tutti i mezzi. Questa elettricità può essere scaricata in ogni momento, sia in “piccoli” atti criminali come quello di due giorni fa, sia durante atrocità di massa». Il 17 aprile, durante i funerali di Khazan, un gruppo di ebrei cercò di uccidere dei lavoratori arabi che si trovavano per strada, per rappresaglia. Nei giorni successivi la comunità civile ebraica fu bersaglio di diversi attentati, fra cui una bomba lanciata su una delle vie più affollate di Tel Aviv, e alcune uccisioni compiute da cecchini. In tutto nell’estate del 1936 furono uccisi 88 ebrei.

Nel frattempo i leader popolari palestinesi – storicamente molto divisi – erano riusciti a riunirsi in un “Alto comitato arabo”, che doveva rappresentare i loro interessi coi britannici. L’Alto comitato arabo organizzò uno sciopero generale dei lavoratori arabi, che causò diversi problemi e che alla lunga aumentò il divario fra le due comunità: i britannici e gli ebrei sostituirono i lavoratori arabi in sciopero con lavoratori ebrei, e lo scioperò si concluse senza grosse conseguenze nell’ottobre del 1936 (mentre pochi mesi dopo l’Alto comitato arabo fu dichiarato fuorilegge dai britannici e smise di funzionare).

Le violenze proseguirono anche negli anni successivi. Gelvin scrive che nell’autunno del 1937, «tra i 9000 e i 10mila combattenti arabi, palestinesi e no, s’aggiravano per le campagne, attaccando le forze britanniche e gli insediamenti sionisti, seminando il panico». Fu però il 1938 l’anno più violento di tutta la rivolta. Il 19 giugno 18 civili arabi morirono per lo scoppio di una bomba in un mercato arabo di Gerusalemme; una bomba esplose anche il 6 luglio nel mercato arabo di Haifa, uccidendo 21 arabi. Entrambi gli attentati sono stati attribuiti all’Irgun, una brigata ebraica para-militare fondata pochi anni prima che durante le rivolte compì decine di attacchi.

Nei mesi successivi la rivolta araba fu sedata dall’esercito britannico, soprattutto con la violenza: ma gli scontri convinsero la comunità ebraica del fatto che la convivenza pacifica coi palestinesi non fosse più possibile (e alla stessa conclusione giunsero anche le autorità britanniche, che per questo motivo alcuni anni più tardi proposero un piano di partizione che prevedeva la creazione di uno stato ebraico e uno arabo). Nel 1938 David Ben Gurion, come riporta Shavit nel suo libro, disse: «la mia soluzione alla questione degli arabi nello stato ebraico è il loro trasferimento negli altri paesi arabi». Il 19 settembre 1939, a rivolta ormai conclusa, fu fondato lo stato maggiore dell’Haganah, un corpo ebraico para-militare già attivo da anni e che dopo la guerra del 1948 divenne il nucleo base dell’esercito nazionale israeliano.

Nel 1948, durante quella che gli israeliani chiamano la Guerra di Indipendenza e i palestinesi la Nakbah, la “catastrofe”, una delle più discusse azioni militari dell’esercito israeliano si tenne a Lidda, la città dove aveva aperto il collegio giovanile di Lehman. Per una specie di malinteso, l’esercito israeliano – che aveva già conquistato la città con un’azione militare – ordinò di sparare indiscriminatamente su un gruppo di civili rimasti in città: ne furono uccisi fra i 150 e i 200. Il giorno successivo l’esercito israeliano ordinò agli abitanti rimasti di raccogliere i propri averi e abbandonare la città, per raggiungere i reggimenti arabi distanti alcuni chilometri. In molti – forse decine, ha scritto lo storico israeliano Benny Morris – morirono di disidratazione e fatica lungo la strada.

In un articolo scritto nel 2013 per il New Yorker, Shavit ha spiegato:

«Lidda è la scatola nera del sionismo. La verità è che il sionismo non poteva tollerare una Lidda araba. Sin dall’inizio, c’è stata una contraddizione sostanziale fra il sionismo e Lidda. Se il sionismo doveva sopravvivere, Lidda non poteva esistere. A posteriori, è tutto molto chiaro. Quando Siegfried Lehman arrivò a Lidda nel 1927, avrebbe dovuto sapere che Lidda era un ostacolo per la creazione di uno stato ebraico, e che un giorno il sionismo avrebbe dovuto sbarazzarsene. Ma Lehman non se ne accorse, e il sionismo fece finta di niente. Per decenni gli ebrei sono riusciti a nascondere a se stessi la contraddizione fra il loro movimento nazionale e Lidda. Per 45 anni il sionismo ha fatto finta di essere il collegio Ben Shemen, e di vivere in pace con Lidda. Poi, nel giro di tre giorni nell’estate del 1948, Lidda cessò di esistere.»

DAL WEB

 

Storia di Babbo Natale

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babbo natale

La storia di Babbo Natale, l’eroe della più popolare festa cristiana, ha origini lontane. Il Babbo Natale originario, infatti, era niente di meno che San Nicola, vissuto nel quarto secolo, dal quale deriva il nome con cui è noto nel mondo anglosassone: Santa Claus

​​​Babbo Natale, l’amico di tutti i bambini, paffuto e sorridente, con il suo completo di panno rosso bordato di pelliccia bianca, con il suo sacco carico di doni, la sua magica slitta trainata da renne che, nella notte di Natale, accompagnata dal suono di campanelli, solca i cieli di tutto il mondo per portare doni a grandi e piccini. La favola di Babbo Natale – che nel mondo anglosassone viene chiamato Santa Claus – ha origini lontane.

Alle origini: San Nicola

Un personaggio molto simile a Santa Claus è realmente esistito: si tratta di San Nicola. Nato a Patara, in Turchia, da una ricca famiglia, divenne vescovo di Myra in Lycia nel IV secolo e con molta probabilità partecipò nel 325 al Concilio di Nicea. Alla sua morte, le spoglie furono deposte a Myra fino al 1807 quando, trafugate da un gruppo di cavalieri italiani travestiti da mercanti, furono portate a Bari, città dove sono tutt’ora conservate e di cui San Nicola è il Santo Patrono. San Nicola è anche il protettore dei bambini e degli scolari.

Si diffusero moltissime leggende sulla storia di San Nicola, una delle più famose è quella di cui parla Dante nel “Purgatorio”. San Nicola era addolorato dal pianto di tre giovani poverissime e del loro padre, un nobile caduto in miseria, ormai troppo povero per procurare una dote sufficiente per far sposare le figlie. Intenerito dal pianto e dalle preghiere del pover’uomo, Nicola decise di aiutarlo lanciando per tre notti dalla finestra un sacchetto carico di monete d’oro. Le prime due notti le cose andarono come previsto, la terza notte San Nicola trovò la finestra inspiegabilmente chiusa. Fu così che, arrampicatosi sul tetto, gettò le monete dal camino dove erano stese ad asciugare le calze del nobiluomo e delle sue figlie. Nella fantasia popolare San Nicola divenne portatore di doni: si festeggia il 6 dicembre, data in cui il vecchio Santo in groppa al suo fedele asinello porta regali ai tanti bambini che ancora credono in lui.

Dall’Europa all’America

La leggenda di San Nicola fece il giro d’Europa: quando i primi immigrati olandesi sbarcarono a New Amsterdam, l’odierna New York, portarono con loro anche l’immagine di San Nicola “Sinter Klaas” che, posta sulla prua della nave, proteggeva i marinai durante il lungo viaggio.

La figura del Santo affascinò anche i coloni inglesi: è del 1809 il libro “Una storia di New York” in cui si parla di “Sancte Claus“, un vescovo in miniatura che nella notte di Natale volava sui cieli in groppa ad un cavallo bianco portando doni. Nel 1921 apparve un poemetto di William Gilley in cui “Sante Claus”, vestito di pelliccia, guidava una slitta trainata da una renna e portava i suoi doni. Due anni dopo, seguì il racconto di Clement Clarke Moore, nel quale si legge che la notte della vigilia di Natale un piccolo uomo sfrecciava nei cieli su una slitta trainata da otto renne, ognuna con il suo nome, recando doni a tutti i bambini del mondo.

 

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