Se il tuo vecchio iPhone non è più veloce come prima, potrebbe essere Apple a causarlo. Ecco come scoprirlo e come risolvere il problema.

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In modo del tutto casuale alcuni utenti si sono accorti che sostituendo la vecchia batteria del loro iPhone le prestazioni aumentavano. La notizia è subito circolata in rete e in seguito si è scoperto che è la stessa Apple a causare volutamente questo rallentamento[1]

Non si tratta di una pratica scorretta per spingere le persone ad acquistare un nuovo iPhone, ma una soluzione tecnica per evitare che la perdita di efficienza della batteria possa causare problemi di funzionamento come arresti improvvisi.

Col tempo, infatti, la batteria al litio perde un po’ della sua efficienza e non è più in grado di garantire una carica adeguata. Per evitare, quindi, malfunzionamenti, Apple ha adottato la soluzione di rallentare la velocità del processore sugli iPhone più vecchi.

I modelli di iPhone interessati dal rallentamento del processore sono: iPhone 6, iPhone 6S, iPhone SE e iPhone 7. Questa soluzione è stata introdotta inizialmente con iOS 10.2.1 per iPhone 6, iPhone 6S e iPhone SE, e poi estesa all’iPhone 7 con iOS 11.2. Per verificare la versione di iOS del proprio iPhone basta andare in Impostazioni/Generali/Info.

Come premesso, Apple diminuisce le prestazioni del processore solo sugli iPhone la cui batteria ha iniziato a perdere la capacità di carica. Col tempo la durata della batteria può ridursi anche del 50-60%. Questo può avvenire anche dopo un anno dal suo acquisto se non si adottano le pratiche corrette per preservarne la durata.

Sull’App Store ci sono diverse applicazioni che consentono di controllare lo stato della batteria dell’iPhone come ad esempio Battery Life. Per verificare se il proprio iPhone è stato rallentato a causa del decadimento della batteria, si può utilizzare un benchmark Geekbench.

Geekbench consente di testare le prestazioni del processore dell’iPhone. In un post sul suo blog [2] sono riportati alcuni dati relativi al problema del rallentamento dell’iPhone. In pratica il punteggio di un nuovo iPhone 6S dovrebbe essere di 2500 mentre quello di un iPhone 7 dovrebbe essere di 3500. Un punteggio molto più basso potrebbe voler dire che il proprio iPhone è stato rallentato a causa del decadimento delle prestazioni della batteria.

Per ripristinare le prestazioni del proprio iPhone potrebbe essere sufficiente sostituire la batteria con una nuova. Il costo ufficiale per sostituire la batteria di un iPhone è di € 89, non poco ma comunque molto meno rispetto all’acquisto di un nuovo iPhone.

note

[1] http://appleinsider.com/articles/17/12/20/apple-responds-to-reports-of-worn-battery-forcing-iphone-cpu-slowdown

[2]  https://www.geekbench.com/blog/2017/12/iphone-performance-and-battery-age/

Indennità, diaria, rimborsi: quanto ci costano deputati e senatori? E quali sanzioni sono previste se non vanno in aula e fanno saltare una legge?

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Che succede ad un lavoratore se un giorno decide di non presentarsi in ufficio senza un motivo valido mandando in crisi l’organizzazione aziendale? Che può essere licenziato, come ha stabilito la Cassazione [1]. Che succede ad un parlamentare se un giorno decide di non presentarsi in aula senza un giustificato motivo mandando all’aria una proposta di legge? Che non viene licenziato, come si è visto prima di Natale al Senato con la mancata approvazione dello ius soli. Alla peggio, perde la cosiddetta «diaria», cioè i soldi che gli sarebbero entrati se avesse fatto il suo dovere. Ma con quello che guadagna un parlamentare (e con quello che non spende, a differenza dei comuni mortali) probabilmente il deputato o il senatore non ne avverte la mancanza.

È soltanto uno dei privilegi di cui godono i nostri politici che sono riusciti ad arrivare in Parlamento dopo aver promesso ai loro elettori che si sarebbero dati da fare per questo o per quell’altro. Ed è anche una delle cose che più indispongono i cittadini onesti e lavoratori, specialmente quando, alla fine del mese, guardano la loro busta paga e vedono che per guadagnare quella manciata di euro (ammesso che abbiano un lavoro) devono sacrificarsi ogni giorno e rispettare le regole.

Guardano la busta paga e pensano, vedendo i banchi vuoti del Parlamento durante il telegiornale: «Chissà quanto si pigliano per nemmeno presentarsi in aula». Volete sapere quanto guadagna un parlamentare? E quanti soldi perde quando non va al lavoro? Continuate a leggere, ma prima prendetevi qualcosa per lo stomaco: potrebbe esservi utile.

Quanto guadagna un deputato

Partiamo da Montecitorio. Quanto guadagna un parlamentare che siede alla Camera dei Deputati? Ogni singolo eletto ha diritto ad un’indennità lorda di 11.703 euro, pari a 5.346,54 euro netti. Pensavate guadagnassero di più? Infatti, è così.

All’indennità bisogna aggiungere la diaria, i rimborsi spese, i rimborsi telefonici ed i rimborsi per le spese di trasporto. Senza contare l’assegno di fine mandato e la pensione (alla quale certamente non accedono con 40 e passa anni di contributi e quasi 70 di età anagrafica). Nello specifico, oltre all’indennità netta sopra citata, ogni deputato percepisce:

  • 3.503,11 euro di diaria;
  • 3.690 euro di rimborso spese di mandato;
  • 1.200 euro all’anno di spese telefoniche (sarebbero 100 euro al mese facendo due conti);
  • 3.995,10 euro ogni tre mesi per le spese di trasporto.

Calcolatrice alla mano, quanto guadagna un parlamentare a Montecitorio13.971,35euro al mese. Tenuto conto che spese telefoniche e di trasporto sono comprese nel prezzo, quindi non dovranno spendere un euro per una chiamata o per prendere un aereo. Soprattutto se abitano a Roma e dintorni (il rimborso per il trasporto lo prendono lo stesso).

Quanto guadagna un senatore

Quanto guadagna un parlamentare che siede su uno dei banchi di Palazzo Madama? Un senatore prende un’indennità mensile lorda appena più bassa di quella del deputato, «appena» 10.385,31 euro, vale a dire 5.304,89 euro netti (circa 200 euro in meno per i senatori che hanno un’attività lavorativa). In più:

  • 3.500 euro di diaria;
  • 4.180 euro di rimborso spese di mandato;
  • 1.650 euro al mese di rimborso forfettario telefonico e di trasporto.

Totale: 14.634,89 euro al mese.

Stipendi dei parlamentari: cosa sono i rimborsi per esercizio del mandato

Come abbiamo visto, tra le voci che stabiliscono quanto guadagna un parlamentare c’è quella del rimborso delle spese per l’esercizio del mandato (3.690 euro per i deputati e 4.280 euro per i senatori).

Dove finiscono quei soldi? Il 50% viene erogato a titolo forfettario, mentre il restante 50% viene corrisposto a titolo di rimborso con tanto di attestazione (devono, cioè, presentare una distinta in cui dimostrano di averli spesi) per i costi sostenuti in:

  • collaboratori (tra cui il famoso «portaborse»). Ci deve essere, comunque, una dichiarazione di assolvimento degli obblighi previsti dalla legge e la copia del contratto del collaboratore con attestazione di conformità);
  • consulenze;
  • ricerche;
  • gestione dell’ufficio;
  • uso di banche dati pubbliche;
  • convegni;
  • sostegno dell’attività politica.

Stipendi dei parlamentari: le spese di trasporto dei deputati

Ma quanto viaggia un deputato per vedersi riconosciuti tutti quei soldi come rimborso delle spese di trasporto? Dipende, tra le altre cose, dalla frequenza con cui torna nel territorio in cui è stato eletto (dove farsi vedere ogni tanto, così, giusto per vedere come vanno le cose, non guasterebbe).

Un parlamentare ha diritto (fuori dal rimborso per le spese di trasporto) alle tessere autostradali sul territorio nazionale (Viacard o Telepass) ed a quelle per viaggiare con l’aereo, con il treno o con la nave. Inoltre, ogni deputato percepisce ogni trimestre 3.323,70 euro per andare da Montecitorio a Fiumicino o viceversa e per recarsi dal suo luogo di residenza all’aeroporto più vicino se deve percorrere fino a 100 km. Se la distanza tra casa sua e lo scalo è superiore ai 100 km, la cifra trimestrale aumenta a 3.995,10 euro. Il paradosso è che c’è chi abita a 5 minuti a piedi dalla Camera dei Deputati ma prende questi soldi lo stesso.

Stipendi dei parlamentari: l’assegno di fine mandato

I deputati versano ogni mese ad un fondo creato appositamente per loro una quota della loro indennità lorda, pari a 784,14 euro. Quando abbandonano Montecitorio perché non vengono più eletti o perché non si presentano più alle elezioni, ricevono un assegno di fine mandato equivalente all’80% dell’importo mensile lordo dell’indennità per ogni legislatura o frazione di mandato non inferiore a 6 mesi.

L’importo versato dai senatori è del 4,5% dell’indennità lorda (quindi, 467,33 euro).

Stipendi dei parlamentari: la pensione

I parlamentari eletti dopo il 1 gennaio 2012 hanno un trattamento pensionistico basato sul sistema contributivo simile a quello dei dipendenti pubblici (in teoria lo sarebbero). A quelli eletti prima di quella data (ce ne sono eccome) ed a quelli cessati ma poi rieletti viene applicato un sistema pro rata basato sulla somma della quota assegno vitalizio maturata al 31 dicembre 2011 e una quota relativa all’incremento contributivo che riguarda gli ultimi anni di mandato.

parlamentari hanno diritto alla pensione dopo aver compiuto i 65 anni ed avere avuto un mandato di almeno 5 anni. Per ogni anno di mandato in più si scala un anno anagrafico: 6 anni in Parlamento, pensione a 64 anni; 7 anni in Parlamento, pensione a 63 anni e così via fino al minimo di 60 anni di età. Chi viene eletto a 50 anni, insomma, può smettere dopo un paio di legislature.

Stipendi dei parlamentari: che succede se non vanno in aula?

Si diceva all’inizio che se un lavoratore non si presenta in ufficio senza un valido motivo può essere licenziato. Un parlamentare, però, può permettersi di non presentarsi in aula (anche se, così facendo, fa saltare l’approvazione di una legge) rinunciando a qualche soldo. E basta: non è che deve rinunciare alla sua carica, ci mancherebbe.

In caso di assenza non giustificata ai lavori dell’Assemblea, la diaria può essere ridotta di 206,58 euro al giorno quando il parlamentare non risponde ad almeno il 30% delle chiamate al voto. Se l’assenza interessa le sedute delle Giunte, delle Commissioni permanenti o speciali, del Comitato per la legislazione o di altre commissioni o organismi interni al Parlamento, la decurtazione è di 500 euro al mese sulla diaria in base alla percentuale di assenze. Attenzione: sulla diaria. Significa che lo stipendio base, cioè l’indennità, arriva comunque intatto.

note

[1] Cass. sent. n. 17897/2015.

Un locale pubblico deve avere una toilette a disposizione dei clienti. Ma chi non paga, può usare il bagno? Ed il proprietario può mettere una “tariffa-pipì”?

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Al cuore non si comanda. Ma nemmeno a certe esigenze fisiologiche che arrivano spesso nei momenti più inopportuni. Quando c’è da andare, c’è da andare. In certi casi, il più velocemente possibile. Se si è in giro in città, la prima scritta che si cerca è quella di un bar. Che, in quanto locale pubblico, deve avere un bagno a disposizione. Ma se ho già preso il caffè ed è troppo presto per l’aperitivo, posso andare nel bagno del bar senza pagare la consumazione? O sono obbligato a ordinare qualcosa per risolvere l’emergenza (possibilmente dopo, per non aggiungere un danno al danno)?

C’è una normativa che obbliga gli esercizi pubblici ad avere un bagno. Non c’è, invece, quella che obbliga il gestore dell’esercizio pubblico (in questo caso un bar, ma potrebbe essere anche un negozio) a metterlo a disposizione dei clienti in maniera gratuita. Insomma, il “bisognino”, in un modo o in un altro, bisogna pagarlo. A meno di non trovarsi di fronte ad un esercente particolarmente comprensivo e disponibile: se la gentilezza paga, magari il cliente apprezza il gesto e, risolta l’emergenza idrica, si ferma non per un caffè ma addirittura per un cappuccino. Con il cornetto. Alla marmellata. Tanto, ormai non ha più la stessa fretta.

Bagno pubblico: qual è l’obbligo del proprietario del bar

Il proprietario di un bar è tenuto soltanto ad avere un bagno. A norma e funzionante. Altrimenti è passibile di sanzioni. Soprattutto se il cliente ha ordinato e pagato una consumazione ma si sente dire che il bagno non c’è o è fuori uso. In questo caso, l’avventore può chiamare i vigili urbani per una verifica (intanto che arrivano i vigili, può soddisfare le sue esigenze fisiologiche in un altro bar). Se dal controllo emerge che, in effetti, il locale non ha un bagno a disposizione, il proprietario pagherà la multa.

L’importante, dunque, è che il cliente paghi una consumazione per poter pretendere di utilizzare il bagno. Secondo il Tulps, il Testo Unico delle Leggi sulla Pubblica Sicurezza [1], il gestore di un pubblico esercizio non può rifiutarsi di mettere la sua toilette a disposizione di un cliente pagante senza giustificato motivo. Ecco due concetti importanti contenuti nel Testo per non poter negare un bagno: che chi ne ha bisogno sia un cliente pagante, cioè che abbia preso almeno un caffè o un pacchetto di caramelle, e che non ci sia un giustificato motivo. Ma siccome la legge costringe il titolare del pubblico esercizio ad avere sempre un bagno a norma e funzionante, l’unico giustificato motivo che verrebbe in mente per impedire ad un cliente di utilizzarlo è che il bagno sia occupato. O che un quarto d’ora prima, causa abuso di carta igienica da parte di qualche sconsiderato avventore, il bagno si sia allagato. Sì, certo, ci sarebbero altri motivi per cui negare un bagno in un bar ad un cliente. Ad esempio, che chi lo chiede sia una persona molesta, che dà fastidio agli altri forse perché troppo alticcio. Ma qui subentra il diritto dell’esercente ad allontanarlo dal suo locale, non tanto la questione del bagno.

Cosa non può fare il proprietario del bar? Far pagare una tariffa fissa, una sorta di “tassa-pipì” per andare in bagno senza consumare. Qualche gestore è stato multato perché faceva pagare 1 euro per usare il bagno del bar al cliente che non voleva la consumazione. “Tutto sommato”, si difendono gli esercenti, “noi paghiamo l’acqua, la pulizia, il sapone, la carta igienica…” Non avrebbero tutti i torti. Ma è anche vero che se pago per andare in bagno, pretendo che splenda. Cosa più unica che rara a una certa ora del giorno. Perché dovrei pagare per un servizio (un servizio, appunto) scadente, anche se ci devo solo fare la pipì? Inoltre, e calcoliamo al ribasso, 50 persone che usano il bagno ogni giorno equivalgono a 50 euro. E con 50 euro hai voglia a comprare sapone e carta igienica.

Una cosa stupisce: perché ai pubblici esercenti viene chiesto di mettere a disposizione dei clienti il proprio bagno ed a Trenitalia no? In un luogo pubblico come una stazione ferroviaria o della metropolitana, perché bisogna avere un euro in tasca per andare di corsa in bagno (si sconsiglia di perdere tempo a cercare di cambiare moneta: potrebbe essere devastante)? Chi ha acquistato un biglietto del treno non è un cliente di Trenitalia, quindi con il diritto di usufruire dei servizi pubblici della stazione?

note

[1] Art. 187 Tulps.

Autore immagine: Pixabay.com

Legge di Bilancio 2018: passa da tre a dieci anni il termine di prescrizione della tassa automobilistica.

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Anche il bollo auto rientra tra quelle tasse alle quali si applicherà il nuovo termine di prescrizione di 10 anni introdotto dalla bozza della legge di bilancio . Stando infatti alla norma appena inserita dal Governo alla manovra di fine anno, i tempi per liberarsi degli arretrati della tassa automobilistica passano da 3 anni a 10. Più del triplo. In pratica, con la riforma si vuol introdurre una norma di interpretazione autentica, avente effetti retroattivi, secondo cui una cartella non impugnata nei 60 giorni dalla sua notifica, e quindi divenuta definitiva, si prescrive sempre dopo 10 anni. In barba a quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione secondo cui, invece, la prescrizione di una cartella esattoriale varia in base alla tipologia di tributo di cui si chiede il pagamento e tale rimane anche se non contestata  [1].

Perché mai questa inversione di tendenza? Sicuramente per dare più tempo al nuovo esattore, ossia Agenzia delle Entrate Riscossione (che già di poteri ne ha a sufficienza), più tempo per eseguire pignoramenti, fermi e ipoteche. Debitori quindi sotto scopa del nuovo Agente della riscossione.

Si triplica la prescrizione della cartella di pagamento per bollo auto se non contestata entro 60 giorni dalla notifica

Piove sul bagnato. La norma ha infatti effetti retroattivi (come tutte le norme di interpretazione autentica) e, pertanto, vale anche per le cartelle già notificate. Con la conseguenza che tutti i contribuenti che hanno già ricevuto delle cartelle per bollo autoe che hanno deciso di non impugnarle, ma che nello stesso tempo stavano attendendo l’arrivo della prescrizione (tre anni), saranno invece imprigionati nel debito per un tempo superiore a tre volte tanto.

Un esempio servirà a comprendere meglio cosa cambia. Immaginiamo una persona che abbia ricevuto tre anni fa, una cartella esattoriale per un  bollo auto non pagato. Il contribuente non ha impugnato la cartella, ma attendeva ansiosamente il 31 dicembre 2018 per liberarsi definitivamente del debito, non avendo mai ricevuto lettere di solleciti. Con la modifica, ci vorrà invece il 2025 per cantare vittoria.

La norma contenuta nella legge di bilancio ha effetto retroattivo e vale anche per le cartelle già notificate

La modifica calpesta letteralmente la precisazione fornita dalle Sezioni Unite della Cassazione a fine dell’anno scorso [1] secondo cui la cartella di pagamento non può assimilarsi a una sentenza definitiva (la quale si prescrive in 10 anni); e pertanto, se anche non impugnata, mantiene gli stessi tempi di prescrizione previsti per il tributo di cui chiede il pagamento. Prescrizione che, per il bollo auto, è di tre anni a partire dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui il pagamento è dovuto.

note

[1] Cass. S.U. sent. n. 23395/16

Un anno di Cassazione le sentenze più eclatanti dell’anno

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In un anno, la Cassazione emette diverse decine di migliaia di provvedimenti tra ordinanze e sentenze. Anche gli operatori del diritto, come i giudici e gli avvocati, fanno difficoltà a leggerle tutte, anche se solo per estratti; una necessità comunque che non sussiste sempre, visto che spesso la Corte è chiamata a ribadire concetti consolidati e scontati per il diritto. Per restare aggiornati con la giurisprudenza è sufficiente leggere solo le sentenze della Cassazione più importanti, quelle cioè che modificano le precedenti interpretazioni, che meglio le chiariscono o che, per la prima volta, affrontano un problema prima mai risolto. Ma come si fa a trovarle? Solo chi è un tecnico sa purtroppo individuarle grazie alle banche dati gratuite o a pagamento che si trovano su internet o su software dedicati (peraltro particolarmente costosi). Ai semplici curiosi non restano che i giornali tradizionali (tra tutti, il Sole24Ore è sicuramente il migliore) o i siti di aggiornamento giuridico come quello che stai leggendo ora. Proprio per questo, e per far in modo che tu sia certo che nulla ti sia sfuggito negli ultimi mesi, abbiamo voluto racchiudere in un unico articolo tutte le sentenze più eclatanti dell’anno, di modo che tu le possa consultare velocemente e aver chiari i principi nuovi, per come espressi, negli ultimi 365 giorni, dai giudici della Cassazione. Vediamo quindi singolarmente quali sono queste pronunce.

Addio assegno di divorzio

Sicuramente la sentenza che, quest’anno, passerà alla storia è quella che ha riscritto le regole sull’assegno di divorzio: non più rivolto a garantire lo stesso tenore di vita che aveva la coppia durante il matrimonio, ma solo il necessario per mantenersi da solo. Il che significa che se già il coniuge dispone di questo “stretto indispensabile” (che, secondo il tribunale di Milano corrisponde a mille euro mensili), nessun mantenimento gli è dovuto. Le nuove regole sull’assegno di mantenimento sono state scritte dalla Cassazione con la sentenza n. 11504/17 del 10 maggio 2017. Dopo ventisette anni, la Cassazione ha superato l’orientamento tradizionale sul mantenimento che collegava la misura dell’assegno in favore del coniuge debole al tenore di vita matrimoniale. Il nuovo parametro per calcolare l’assegno di mantenimento viene individuato nel raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente: se quest’ultimo è economicamente indipendente o è effettivamente in grado di esserlo (per età e condizioni di salute), non ha più diritto ad ottenere l’assegno di mantenimento. Senza contare che, oramai da qualche anno, è stato messo nero su bianco il principio secondo cui, nel momento in cui il coniuge beneficiario del mantenimento va a convivere stabilmente con un’altra persona, perde il diritto all’assegno.

Sulle donazioni con bonifico si pagano le tasse

Ha fatto scalpore – e continua a suscitare perplessità – la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 18725 del 27 luglio 2017 secondo cui i regali di denaro fatti tra parenti con bonifico sono nulle anche se finalizzate all’acquisto di una casa o di un’auto. Difatti, affinché la donazione possa essere valida deve necessariamente avvenire con 1) atto notarile, in presenza di due testimoni (in tal caso si realizza la forma della cosiddetta «donazione diretta» sulla quale però bisogna pagare, oltre al compenso al notaio, anche le imposte sulla donazione; 2) oppure, in alternativa, nel successivo atto di acquisto del bene, è necessario specificare che i soldi con cui si paga il prezzo sono stati versati, dal familiare, sul conto dell’acquirente (in tal caso si realizza una «donazione indiretta» e non c’è bisogno né del notaio, né del pagamento delle imposte di donazione). Per maggiori approfondimenti leggi Donazione di denaro per acquisto casa: come si fa.

L’avvocato, il compenso e la Cassa forense

Con l’ordinanza n. 548 dell’11 gennaio 2017, la Cassazione ha detto che, in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti dell’avvocato, si configura una vera e propria competenza funzionale dell’ufficio giudiziario adito per il processo in cui il legale svolge la sua prestazione. Tali controversie, stabilisce di conseguenza la Suprema Corte, devono essere trattate con rito sommario di cognizione, anche nell’ipotesi in cui la domanda riguardi l’esistenza della pretesa, escludendo la possibilità per il giudice di trasformare tale rito in ordinario o dichiarare l’inammissibilità della domanda. La sentenza ha così chiarito la portata dell’articolo 14, d.lgs. n. 150/2011 secondo il quale «il Tribunale decide le controversie in materie di compensi per gli avvocati sempre “in composizione collegiale”, rientrando tali controversie nella riserva prevista per i procedimenti in camera di consiglio dall’art. 50-bis, comma 2, c.p.c.».

Per rimanere nell’ambito del mondo forense, qualche timore ha forse suscitato l’approfondimento relativo al rapporto annuale Censis sull’avvocatura: 100mila avvocati devono cancellarsi dall’albo. Ma da Cassa Forense sono giunte anche buone notizie. Ed infatti il Comitato dei Delegati in data 29 settembre ha approvato una delibera relativa al contributo integrativo minimo. Leggi Cassa avvocati: addio contributo integrativo minimo.

Incidenti stradali: si cambia

Quest’anno è cambiato il metodo per avere il risarcimento in caso di incidenti stradali. Con il decreto concorrenza approvato la scorsa estate, è stato posto un grosso limite sul valore del testimone in causa. Ma le nuove norme – specie quelle sulla scatola nera – sono state già poste al vaglio della Corte Costituzionale con il sospetto che possano essere contrarie al diritto alla difesa. Il sospetto di incostituzionalità nasce soprattutto dal fatto che la norma (l’articolo 1, comma 20, della legge 124/2017) attribuisce il valore di piena prova dei fatti alle risultanze del dispositivo, «salvo che la parte contro la quale sono state prodotte dimostri il mancato funzionamento o la manomissione del predetto dispositivo» (e la realtà ha dimostrato che casi del genere sono tutt’altro che teorici).

Ricordiamo che, con le nuove regole, chi chiede il risarcimento alla propria assicurazione per un incidente stradale con danni solo alle auto e non alle persone (conducenti e trasportati) deve subito indicare i testimoni che hanno assistito allo scontro; se non lo fa, sarà l’assicurazione a ricordarglielo con una raccomandata da inviare entro 60 giorni dalla denuncia di sinistro ed a cui l’assicurato deve rispondere nei successivi 60 giorni. In caso di mancata indicazione, si perde il diritto a chiedere la prova testimoniale nella successiva ed eventuale causa che dovesse essere intrapresa contro la compagnia che abbia negato il risarcimento o abbia accordato un importo inferiore rispetto a quello preteso. L’obiettivo è quello di evitare testimoni di comodo.

Solo in tre casi si può ugualmente chiamare un testimone che non sia stato indicato nella denuncia di sinistro:

  • se, nell’immediatezza del fatto, vi è stata una oggettiva impossibilità all’identificazione dei testimoni;
  • se i testimoni sono stati comunque identificati dalla polizia;
  • in tutti gli incidenti con danni alle persone e non solo ai mezzi.

Permessi legge 104: buone notizie

Buone notizie per i titolari della legge 104: non c’è bisogno di convivere con il familiare disabile per chiedere il trasferimento in un’altra città più vicina. Inoltre il diritto alla scelta del posto di lavoro spetta non solo al momento dell’assunzione ma anche successivamente, in corso di esecuzione del rapporto con l’azienda. Il datore di lavoro che nega l’avvicinamento richiesto dal dipendente deve provare le circostanze ostative al suo esercizio ossia la sussistenza di ragioni di natura organizzativa, tecnica o produttiva, che impediscono di accogliere la richiesta di un’assunzione, o anche di trasferimento, presso una sede di lavoro vicina al domicilio della persona disabile che si assiste. È quanto chiarisce la Cassazione con l’ordinanza n. 23857 dell’11 ottobre 2017.

Tirare sassi contro le auto non è più reato

Tirare tassi contro un’auto non è reato se il proprietario è nelle dirette vicinanze del mezzo. Si tratta infatti di un danneggiamento che rientra tra le condotte di recente depenalizzate. È quanto chiarito dalla Cassazione con la sentenza n. 46585/17 dell’11.10.2017. Perché mai? Dall’anno scorso il danneggiamento non è più reato. Il reato resta però reato se il bene viene «esposto alla pubblica fede» ossia quando l’oggetto è lasciato senza una custodia continua, come nel caso in cui l’auto sia stata parcheggiata sul ciglio della strada pubblica. Secondo il ragionamento della Cassazione, quando il proprietario dell’auto è nei paraggi o dentro l’abitacolo, il bene non può più dirsi «esposto alla pubblica fede»; al contrario esso rimane sotto la custodia del titolare. Non scatta quindi l’aggravante e il comportamento rientra nelle ipotesi depenalizzate.

Si licenzia anche senza crisi

Si rafforza il filone interpretativo secondo cui affinché il licenziamento per riduzione del personale possa essere valido (cosiddetto “giustificato motivo soggettivo”) non è necessario che il datore di lavoro dimostri la crisi e, quindi, la necessità di tagliare i posti per ridurre le perdite; si può, al contrario, licenziare anche per una precisa scelta aziendale di rendere più efficiente la produzione e, quindi, aumentare i profitti.

Entrare in casa altrui per una notte non è reato

Secondo la sentenza n. 40827/2017 della Cassazione, l’abusivo che occupa casa altrui per ripararsi dal freddo e dal ghiaccio non può essere denunciato. Sussiste infatti la legittima giustificazione dettata dalla necessità di salvare sé o i familiari dal pericolo attuale di un danno grave alla persona e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile. È proprio il caso del senzatetto. Lo «stato di necessità» – dettato da una situazione improvvisa, incontrollabile e incolpevole – scrimina dal reato ed esime dal risarcimento del danno. La scelta di occupare una casa in una notte particolarmente rigida risulta quasi obbligata, poiché frutto di «particolari condizioni di emarginazione» e della necessità di «reperire un alloggio notturno» e «ripararsi dai rigori dell’inverno». Così, se un giorno vai a fare una ricognizione nella tua casa di campagna e là trovi una famiglia di rom che si è barricata dentro per non morire di freddo in una notte invernale e tempestosa, è inutile che chiami la polizia e che sporgi denuncia: non c’è reato.

Allo stesso modo, in passato la Cassazione aveva detto che anche rubare per fame non è reato. Non scatta la condanna penale per chi viene pescato a rubare per necessità, anche se il reo è recidivo e ha già commesso il fatto più volte: opera infatti la cosiddetta “causa di giustificazione” prevista dal codice penale.

Fingere per conquistare una donna è violenza sessuale

La sostituzione di persona si realizza quando un tale si attribuisce un nome o una qualità che non gli è propria. Così spacciarsi per il capo di una società, quando invece si è solo un dipendente, è reato. Se però tale finzione viene messa in atto solo per andare a letto con una collega, che magari fa affidamento sulla posizione importante dell’uomo onde fare carriera, scatta la violenza sessuale. A dirlo è la sentenza n. 55481 del 13 dicembre scorso della Cassazione. La Corte ricorda che il codice penale sanziona la violenza sessuale anche quando questa viene posta in essere tradendo in inganno la vittima per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Questo non significa solo far credere di essere una persona che non si è (Mario, ad esempio, spinge a credere di essere Giovanni), ma anche attribuirsi delle qualità o uno stato che non si ha. Difatti, il consenso al rapporto sessuale non deve coprire solo l’atto in sé ma anche l’identità della persona con cui lo si pone in essere. Vien da sé che se la persona è diversa (ipotesi di scambio fisico) o non ha le caratteristiche che la stessa ha fatto dolosamente credere all’altra con l’astuzia, non c’è alcun consenso da parte di quest’ultima. Pertanto scatta la violenza sessuale.

Occhio ai post su Facebook

La Cassazione ha ribadito anche quest’anno la pericolosità dei social network: con la sentenza n. 50 del 2 gennaio 2017, i giudici hanno ricordato che chi offende qualcuno attraverso un post o un commento su Facebook commette il reato di diffamazione aggravata: Facebook, infatti, al pari di qualsiasi altro social network, è ritenuto un «mezzo di pubblicità» per via della facile e rapida diffusione dei suoi contenuti.

Parcheggiare stretto è reato

Chi parcheggia così vicino alla tua auto, tanto da impedirti di aprire lo sportello di guida ed entrare, commette reato. Secondo la sentenza n. 53978/17 del 30.11.2017, è violenza privata il parcheggio dell’auto tanto accostato ad un’altra macchina da non consentire al conducente di scendere o salire dal suo lato (evidentemente non conta che sia possibile dal lato passeggero vista la scomodità nel passare da un sedile all’altro, specie per chi ha una corporatura robusta). Il principio non è nuovo; è nuova solo l’applicazione e il caso. Già in passato la Cassazione ha più volte ripetuto che parcheggiare la propria macchina in modo da sbarrare la strada al garage, al box auto, al cortile del condominio o a qualsiasi altro spazio privato, impedendo al legittimo titolare di accedervi o reimmettersi sulla vita pubblica costituisce violenza privata. Allo stesso modo, lasciare la macchina a pochi centimetri da un’altra ferma, impedendo così al conducente di quest’ultima di poter regolarmente entrare o uscire dal proprio sportello configura violenza privata.

Elezioni politiche 4 marzo ? che succede fino al voto.

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Non si tratta di elezioni anticipate ma quasi. La XVII Legislatura si doveva concludere il 14 marzo 2018 ma si concluderà dieci giorni prima, il 4 marzo, quando gli italiani saranno chiamati alle urne per rinnovare i due rami del Parlamento ed arrivare alla nomina di un nuovo Governo.

Che succede fino al voto per le elezioni politiche del 4 marzo? Qual è l’iter dettato dalla nostra Costituzione per porre fine all’attuale Legislatura? Dallo scioglimento delle Camere fino all’insediamento del Parlamento e del Governo, chi amministra il Paese? Quanto dura la campagna elettorale? Vediamo.

Elezioni 4 marzo: che significa lo scioglimento delle Camere?

In base alla facoltà che gli concede l’articolo 88 della Costituzione, il presidente della Repubblica (Sergio Mattarella) convoca al Quirinale i presidenti Senato e Camera (in questo caso, rispettivamente, Pietro Grasso e Laura Boldrini) e, successivamente, scioglie i due rami del Parlamento con un decreto controfirmato dal presidente del Consiglio (fino alla fine di questa Legislatura, Paolo Gentiloni).

Che succede fino al voto? Il Parlamento perde i suoi poteri? In un certo sì, ma senza che ci sia un vuoto di potere. La Costituzione pensa anche ad evitare questa eventualità, consentendo alle Camere, anche dopo lo scioglimento, di esercitare temporaneamente il proprio ruolo fino all’insediamento del nuovo Parlamento. In pratica, Camera e Senato si occupano di garantire la normale amministrazione o di affrontare una situazione di emergenza. Quello che, invece, il Parlamento non può fare in questa fase di «limbo» è eleggere un nuovo presidente della Repubblica.

Sciolte le Camere, tocca al presidente del Consiglio salire al Quirinale – eventualmente accompagnato dal ministro dell’Interno – per firmare il decreto che indice le elezioni politiche. Quel decreto viene, poi, portato in Consiglio dei Ministri per fissare la data inaugurale del nuovo Parlamento che, in base all’articolo 61 della Costituzione, non deve essere oltre i 20 giorni dal voto. Quindi, e poiché le elezioni si tengono i 4 marzo, l’insediamento delle nuove Camere non deve avvenire oltre il 23 marzo.

Elezioni politiche 4 marzo: quanto dura la campagna elettorale?

Questa è una domanda che fa spesso sorridere. La campagna elettorale, cioè quell’insieme di attività di propaganda che si svolgono per promuovere idee e candidati dei diversi partiti, deve durare ufficialmente trenta giorni e concludersi due giorni prima del voto.

Vuol dire che, in vista delle elezioni politiche del 4 marzo, la campagna dovrebbe iniziare il 2 febbraio (mese che nel 2018 porta 29 giorni) e finire il 2 marzo. Trenta giorni giusti giusti di calendario. Il 3 marzo, cioè il giorno prima del voto, è la cosiddetta giornata del silenzio o il giorno di riflessione in cui non è consentito fare dei comizi o dei proclami elettorali.

Perché il fatto di chiedersi quanto dura la campagna elettorale fa sorridere? Perché per molti (e, a ben vedere non avrebbero tutti i torti) la campagna elettorale ha una data ufficiale di chiusura ma mai di apertura. Quasi tutti i politici (dire «quasi» è usare una forma di cortesia più che di prudenza) sfruttano mesi prima microfono e taccuini per portarsi avanti, per iniziare a vendere agli elettori idee e programmi e per screditare l’avversario. Quindi, la pratica supera l’ufficialità: la campagna elettorale si sa quando finisce, ma mai quando inizia. Sono cose della politica, vero?

Che succede dopo le elezioni politiche del 4 marzo?

Dopo il voto, il presidente della Repubblica dà il via ad un giro di consultazioni con i leader dei partiti con rappresentanza parlamentare. Il Capo dello Stato affida, di norma, all’esponente politico del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni l’incarico per la formazione di un nuovo Governo.

Il presidente del Consiglio incaricato dal Quirinale apre una trattativa con le forze politiche per esporre il suo programma e sondare l’appoggio dei leader politici. In definitiva, per cercare una coalizione che tenga in piedi nel modo più solido possibile il suo Governo. Se, a suo avviso, i presupposti ci sono, si rimette alla fiducia del Parlamento. Altrimenti, rinuncia all’incarico.

Se il premier incaricato ritiene di essere in grado di formare un nuovo Governo che possa ottenere la fiducia del Parlamento, dopo averlo comunicato al Capo dello Statoviene nominato con decreto presidente del Consiglio, sceglie e rende pubblica la sua squadra di Governo e, insieme ai suoi ministri, presta giuramento al Quirinale.

Affinché il nuovo Governo sia pienamente operativo, deve ottenere la fiducia dei due rami del Parlamento, cioè della Camera e del Senato, entro 10 giorni dalla data del giuramento. Il presidente del Consiglio espone nelle aule di Palazzo Madama e di Montecitorio il suo programma. Dopo la discussione tra i vari gruppi parlamentari, sarà la votazione finale ad approvare o a bocciare le linee guida del nuovo Governo che, a meno di brutte sorprese, dovrà restare in carica per 5 anni.

Quando iniziò tutto, tra Israele e Palestina

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Prima del 1947, prima della risoluzione dell’ONU: accadde nell’aprile del 1936, ottant’anni fa, con l’uccisione di due commercianti di pollame

Il 15 aprile del 1936, circa ottant’anni fa, è forse la data che si avvicina di più a una data di inizio del conflitto tra ebrei e arabi in Palestina. Erano successe molte cose prima, e ne capitarono moltissime altre dopo, ma quello che avvenne quel giorno è considerato da molti esperti e storici uno spartiacque, nonché il momento in cui gli israeliani presero consapevolezza del fatto che i problemi con gli arabi della Palestina sarebbero stati risolti solamente con la forza. Per capire cosa accadde quel giorno, bisogna fare qualche passo indietro.

Nel 1904 Israel Zangwill, uno dei più famosi scrittori ebrei del primo Novecento, pronunciò un famoso discorso a New York argomentando la necessità che il popolo ebraico, da secoli sparpagliato nei vari paesi europei, occupasse con la forza la Palestina, che gli ebrei da sempre considerano la “terra promessa” donata loro da Dio. Zangwill in particolare riteneva che fosse necessario conquistare la Palestina con la violenza, «per cacciare con la spada le tribù che la posseggono, come hanno fatto i nostri padri». Un movimento politico e culturale che sosteneva una maggiore presenza ebraica in Palestina esisteva già da decenni, e fra Ottocento e Novecento erano nate diverse comunità ebraiche in Palestina: ma all’epoca i vertici del movimento sionista erano composti perlopiù da intellettuali e filantropi della borghesia europea, e raramente aveva preso forme così violente. A causa delle sue posizioni Zangwill fu espulso dal movimento sionista, e venne riammesso solamente anni più tardi, nonostante continuasse a mantenere posizioni ugualmente radicali.

Qualche anno dopo, nel 1918, David Ben Gurion – il futuro primo premier di Israele – criticò aspramente Zangwill e le sue posizioni sostenendo in un articolo della rivista Yiddishe Kemper che espropriare gli abitanti della Palestina «non è l’obiettivo del sionismo. […] Per nessuna ragione dobbiamo ledere i diritti dei suoi abitanti. Solo gente come Zangwill può immaginare che la Terra di Israele sarà data agli ebrei assieme al diritto di espropriare gli attuali abitanti». Diciotto anni dopo, arabi ed ebrei combatterono il primo vero scontro di una guerra in corso ancora oggi: fra il 1936 e il 1939 gli abitanti arabi della Palestina si ribellarono contro il “mandato” locale del Regno Unito – una specie di protettorato – soprattutto perché secondo loro avvantaggiava troppo i nuovi immigrati ebrei. L’inizio della cosiddetta “Grande rivolta araba”, il nome che si dà alle rivolte di quei tempi, si fa risalire proprio al 15 aprile 1936.

Nel primo trentennio del Novecento, un numero sempre maggiore di ebrei compì loaliyah –  cioè in ebraico “l’ascesa”, il “ritorno” – in territorio palestinese, dove comprava terreni dai proprietari arabi, bonificava paludi e zone deserte per costruire kibbutz – cioè comunità egalitarie dove la proprietà privata era molto rara – scuole e altre istituzioni ebraiche. I più ottimisti fra i sionisti pensavano che la convivenza sarebbe stata pacifica, e che gli arabi avrebbero lentamente accettato di rimanere una minoranza in Palestina; quelli pessimisti pensavano che il flusso continuo di ebrei europei li avrebbe costretti a migrare nei paesi arabi confinanti come la Siria, la Giordania e il Libano.

Per molti ebrei arrivati in Israele, comunque, gli autoctoni di etnia araba non erano il problema principale: da quando nel 1917 l’Impero inglese, che aveva una specie di protettorato sulla Palestina, riconobbe la legittimità di istituire uno stato ebraico, gli israeliani si dedicarono soprattutto a mettere in piedi un sistema economico stabile e di ispirazione socialista – puntando moltissimo per esempio sulla coltivazione e il commercio di agrumi – e a dotarsi delle prime istituzioni statali (la nota Università ebraica di Gerusalemme fu fondata nel 1918). All’epoca circa il 90 per cento della popolazione palestinese era di etnia araba.

Negli anni successivi ci furono numerosi esempi di tolleranza, se non di convivenza pacifica, fra arabi ed ebrei. A Lidda, un’antica colonia greca poi diventata una cittadina araba situata a 20 chilometri da Tel Aviv, il medico ebreo tedesco Siegfried Lehman fondò nel 1927 un collegio per ragazzi ebrei molto rispettato dai vicini paesi arabi: Lehman forniva cure mediche agli abitanti dei villaggi arabi, i ragazzi del collegio andavano spesso in gita negli stessi villaggi e nel collegio era stata istituita una “fiera” per celebrare e studiare la cultura araba. Nel 1947, vent’anni dopo la sua fondazione, il collegio di Lehman aveva circa un migliaio di studenti, ed era uno dei più attivi della Palestina ebraica.

Nel suo recente libro La mia terra promessa, l’editorialista di Haaretz Ari Shavit ha raccontato che anche a Rehovot, il piccolo paese israeliano in cui è nato nel 1957, esistevano simili forme di convivenza pacifica fra arabi e israeliani. Scrive Shavit:

Proprio come a Rehovot, anche Zarnuga [il villaggio arabo da cui ai tempi proveniva metà della forza lavoro di Rehovot] si sta sviluppando rapidamente. […] Negli ultimi dieci anni la popolazione del villaggio è aumentata, raggiungendo le 2.400 unità; negli ultimi cinque anni anche la superficie occupata dagli aranceti è raddoppiata, e ora è pari a 2.555 dunam (un’unità di misura araba pari a un chilometro quadrato) in dieci anni i prezzi degli immobili sono decuplicati. Lavorando e trascorrendo la maggior parte del tempo a Rehovot, molti dei suoi abitanti hanno imparato tante cose. Ora sanno guidare i trattori, azionare le pompe dei pozzi e coltivare gli aranceti secondo le tecniche più recenti. Costruiscono moderne case di pietra sempre più simili a quelle di Rehovot. Nell’insediamento arabo comprano giacche di taglio occidentale, mobili, pentole e padelle prodotti in Occidente, alimenti in scatola, medicine e cibo per bambini.

Così, nell’autunno del 1935, il coltivatore di arance [israeliano] può pensare che la questione araba non sia affatto una questione. Gli arabi che lavorano per lui non sono un problema […]. Rehovot cresce, e di pari passo anche Zarnuga. Rehovot si arricchisce, e così Zarnuga. Ogni mattina, quando i braccianti del villaggio arrivano davanti al cancello dell’aranceto, sembra che tutto vada per il meglio. E ogni giorni, quando decine di ragazzini di Zarnunga arrivano a Rehovot in sella alle loro biciclette, sembra non esservi nulla di cui preoccuparsi.

In realtà fra gli anni Venti e Trenta la situazione si era fatta sempre più tesa: gli ebrei continuavano ad arrivare in Palestina a migliaia, e a comprare terreni e fondare kibbutz. La crisi economica mondiale del 1929 aveva messo in difficoltà soprattutto gli agricoltori arabi, che avevano perso il lavoro o erano stati costretti a vendere i propri terreni agli ebrei, che disponevano di ingenti risorse provenienti dall’Europa. Per reazione a tutto questo – le cattive condizioni economiche della Palestina araba e l’avanzata del progetto sionista – i nazionalisti palestinesi si organizzarono in associazioni nazionaliste e brigate para-militari, criticando l’immigrazione ebraica e il progetto sionista per volersi imporre su una terra che consideravano di loro proprietà.

Il primo grande scontro avvenne nel 1929: a fine agosto si sparse la voce che gli ebrei in Palestina avrebbero cercato di ottenere il controllo del Muro del Pianto, un luogo considerato parte dell’antichissimo tempio ebraico distrutto dai Romani. Il Muro si trova però appena sotto alla Spianata delle Moschee, la cui più importante è la moschea di al Aqsa, costruita nel luogo dove secondo l’Islam il profeta Maometto salì in cielo. A seguito delle voci, la popolazione araba attaccò diversi abitanti ebrei della Palestina: negli scontri dei giorni successivi morirono circa 130 ebrei – metà dei quali a Hebron, una città a maggioranza araba che oggi si trova in Cisgiordania e ancora oggi molto pericolosa – e quasi altrettanti arabi. Lo storico James L. Gelvin, che ha scritto un apprezzato manuale storico sul conflitto israelo-palestinese, ha descritto molto bene la situazione di quegli anni dal punto di vista degli arabi palestinesi:

Più ebrei arrivavano in Palestina, più gli agenti sionisti acquistavano terra. I prezzi dei terreni agricoli balzarono alle stelle, e non pochi proprietari terrieri [arabi] residenti in città decisero di fare il colpo gobbo vendendo le loro terre al Fondo nazionale ebraico. [Quando anche] le grandi proprietà terriere cominciarono a scarseggiare, allora gli agenti sionisti cominciarono ad acquistare piccoli appezzamenti, sia direttamente, sia rilevandoli dagli usurai. Entrarono così in contatto con un numero sempre maggiore di palestinesi che vivevano al limite della sopravvivenza. Nel 1931, gli acquisti di terra da parte dei sionisti avevano comportato l’espulsione di circa ventimila famiglie contadine dalle loro terre. Nel giro di pochi anni, la percentuale di agricoltori palestinesi senza terrà raggiungerà il 30 per cento. Inoltre, il 75-80 per cento dei proprietari disponeva di appezzamenti insufficienti per la sopravvivenza. Il sionismo, in precedenza qualcosa di decisamente astratto per molti abitanti autoctoni della Palestina, era diventato una presenza tangibile.

Nell’ottobre del 1935 la situazione peggiorò ulteriormente: alla fine dell’anno un funzionario britannico scoprì nel porto di Giaffa – un’antica città a sud di Tel Aviv – un carico di armi destinato alla comunità ebraica in Palestina, nascosti in un carico di cemento partito dal Belgio. Dopo la scoperta, un popolare predicatore e capo militare islamico di nome Izz Abd al Kader Mustafa Yusuf ad Din al Kassam invocò la jihad contro la popolazione ebraica: nonostante la popolarità di al Kassam – che faceva leva sulla povertà e il risentimento della popolazione araba – in pochi si unirono alle sue brigate, e lo stesso al Kassam morì durante uno scontro con l’esercito britannico il 20 novembre 1935.

Si arrivò così al 15 aprile 1936, quando un gruppo di uomini armati occupò la strada di Tulkarem che porta a Tel Aviv. Ai primi passanti vennero chiesti dei soldi per la causa araba. Quando arrivarono due commercianti di pollame ebrei diretti a Tel Aviv, Israel Khazan e Zvi Dannenberg, la banda armata li derubò e li uccise. I giornali arabi dell’epoca, scrive Haaretz, raccontarono che un altro uomo tedesco che si trovava lì in quel momento venne lasciato andare: e che la banda armata gli disse “vai in pace, in nome di Hitler” (la contiguità fra capi islamisti in Palestina e dittatura nazista è tuttora oggetto di studi, benché sia data praticamente per certa). Rami Khazan, bis-bis nipote 64enne di Israel Khazan, ha detto ad Haaretz: «Gli fecero un’imboscata. Fu fermato al posto di blocco, e per orgoglio – che in quel caso può anche essere considerata irresponsabilità – affrontò la banda armata e disse loro: “eccomi qui, cosa potete farmi?”. E poi gli spararono».

Dopo l’uccisione di Khazan e Dannenberg, Haaretz uscì con un editoriale molto preoccupato in cui scriveva: «in questi giorni l’atmosfera è elettrica. L’umore delle masse è stato avvelenato da una propaganda totalmente ideologica, per la quale il fine giustifica tutti i mezzi. Questa elettricità può essere scaricata in ogni momento, sia in “piccoli” atti criminali come quello di due giorni fa, sia durante atrocità di massa». Il 17 aprile, durante i funerali di Khazan, un gruppo di ebrei cercò di uccidere dei lavoratori arabi che si trovavano per strada, per rappresaglia. Nei giorni successivi la comunità civile ebraica fu bersaglio di diversi attentati, fra cui una bomba lanciata su una delle vie più affollate di Tel Aviv, e alcune uccisioni compiute da cecchini. In tutto nell’estate del 1936 furono uccisi 88 ebrei.

Nel frattempo i leader popolari palestinesi – storicamente molto divisi – erano riusciti a riunirsi in un “Alto comitato arabo”, che doveva rappresentare i loro interessi coi britannici. L’Alto comitato arabo organizzò uno sciopero generale dei lavoratori arabi, che causò diversi problemi e che alla lunga aumentò il divario fra le due comunità: i britannici e gli ebrei sostituirono i lavoratori arabi in sciopero con lavoratori ebrei, e lo scioperò si concluse senza grosse conseguenze nell’ottobre del 1936 (mentre pochi mesi dopo l’Alto comitato arabo fu dichiarato fuorilegge dai britannici e smise di funzionare).

Le violenze proseguirono anche negli anni successivi. Gelvin scrive che nell’autunno del 1937, «tra i 9000 e i 10mila combattenti arabi, palestinesi e no, s’aggiravano per le campagne, attaccando le forze britanniche e gli insediamenti sionisti, seminando il panico». Fu però il 1938 l’anno più violento di tutta la rivolta. Il 19 giugno 18 civili arabi morirono per lo scoppio di una bomba in un mercato arabo di Gerusalemme; una bomba esplose anche il 6 luglio nel mercato arabo di Haifa, uccidendo 21 arabi. Entrambi gli attentati sono stati attribuiti all’Irgun, una brigata ebraica para-militare fondata pochi anni prima che durante le rivolte compì decine di attacchi.

Nei mesi successivi la rivolta araba fu sedata dall’esercito britannico, soprattutto con la violenza: ma gli scontri convinsero la comunità ebraica del fatto che la convivenza pacifica coi palestinesi non fosse più possibile (e alla stessa conclusione giunsero anche le autorità britanniche, che per questo motivo alcuni anni più tardi proposero un piano di partizione che prevedeva la creazione di uno stato ebraico e uno arabo). Nel 1938 David Ben Gurion, come riporta Shavit nel suo libro, disse: «la mia soluzione alla questione degli arabi nello stato ebraico è il loro trasferimento negli altri paesi arabi». Il 19 settembre 1939, a rivolta ormai conclusa, fu fondato lo stato maggiore dell’Haganah, un corpo ebraico para-militare già attivo da anni e che dopo la guerra del 1948 divenne il nucleo base dell’esercito nazionale israeliano.

Nel 1948, durante quella che gli israeliani chiamano la Guerra di Indipendenza e i palestinesi la Nakbah, la “catastrofe”, una delle più discusse azioni militari dell’esercito israeliano si tenne a Lidda, la città dove aveva aperto il collegio giovanile di Lehman. Per una specie di malinteso, l’esercito israeliano – che aveva già conquistato la città con un’azione militare – ordinò di sparare indiscriminatamente su un gruppo di civili rimasti in città: ne furono uccisi fra i 150 e i 200. Il giorno successivo l’esercito israeliano ordinò agli abitanti rimasti di raccogliere i propri averi e abbandonare la città, per raggiungere i reggimenti arabi distanti alcuni chilometri. In molti – forse decine, ha scritto lo storico israeliano Benny Morris – morirono di disidratazione e fatica lungo la strada.

In un articolo scritto nel 2013 per il New Yorker, Shavit ha spiegato:

«Lidda è la scatola nera del sionismo. La verità è che il sionismo non poteva tollerare una Lidda araba. Sin dall’inizio, c’è stata una contraddizione sostanziale fra il sionismo e Lidda. Se il sionismo doveva sopravvivere, Lidda non poteva esistere. A posteriori, è tutto molto chiaro. Quando Siegfried Lehman arrivò a Lidda nel 1927, avrebbe dovuto sapere che Lidda era un ostacolo per la creazione di uno stato ebraico, e che un giorno il sionismo avrebbe dovuto sbarazzarsene. Ma Lehman non se ne accorse, e il sionismo fece finta di niente. Per decenni gli ebrei sono riusciti a nascondere a se stessi la contraddizione fra il loro movimento nazionale e Lidda. Per 45 anni il sionismo ha fatto finta di essere il collegio Ben Shemen, e di vivere in pace con Lidda. Poi, nel giro di tre giorni nell’estate del 1948, Lidda cessò di esistere.»

DAL WEB

 

Storia di Babbo Natale

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babbo natale

La storia di Babbo Natale, l’eroe della più popolare festa cristiana, ha origini lontane. Il Babbo Natale originario, infatti, era niente di meno che San Nicola, vissuto nel quarto secolo, dal quale deriva il nome con cui è noto nel mondo anglosassone: Santa Claus

​​​Babbo Natale, l’amico di tutti i bambini, paffuto e sorridente, con il suo completo di panno rosso bordato di pelliccia bianca, con il suo sacco carico di doni, la sua magica slitta trainata da renne che, nella notte di Natale, accompagnata dal suono di campanelli, solca i cieli di tutto il mondo per portare doni a grandi e piccini. La favola di Babbo Natale – che nel mondo anglosassone viene chiamato Santa Claus – ha origini lontane.

Alle origini: San Nicola

Un personaggio molto simile a Santa Claus è realmente esistito: si tratta di San Nicola. Nato a Patara, in Turchia, da una ricca famiglia, divenne vescovo di Myra in Lycia nel IV secolo e con molta probabilità partecipò nel 325 al Concilio di Nicea. Alla sua morte, le spoglie furono deposte a Myra fino al 1807 quando, trafugate da un gruppo di cavalieri italiani travestiti da mercanti, furono portate a Bari, città dove sono tutt’ora conservate e di cui San Nicola è il Santo Patrono. San Nicola è anche il protettore dei bambini e degli scolari.

Si diffusero moltissime leggende sulla storia di San Nicola, una delle più famose è quella di cui parla Dante nel “Purgatorio”. San Nicola era addolorato dal pianto di tre giovani poverissime e del loro padre, un nobile caduto in miseria, ormai troppo povero per procurare una dote sufficiente per far sposare le figlie. Intenerito dal pianto e dalle preghiere del pover’uomo, Nicola decise di aiutarlo lanciando per tre notti dalla finestra un sacchetto carico di monete d’oro. Le prime due notti le cose andarono come previsto, la terza notte San Nicola trovò la finestra inspiegabilmente chiusa. Fu così che, arrampicatosi sul tetto, gettò le monete dal camino dove erano stese ad asciugare le calze del nobiluomo e delle sue figlie. Nella fantasia popolare San Nicola divenne portatore di doni: si festeggia il 6 dicembre, data in cui il vecchio Santo in groppa al suo fedele asinello porta regali ai tanti bambini che ancora credono in lui.

Dall’Europa all’America

La leggenda di San Nicola fece il giro d’Europa: quando i primi immigrati olandesi sbarcarono a New Amsterdam, l’odierna New York, portarono con loro anche l’immagine di San Nicola “Sinter Klaas” che, posta sulla prua della nave, proteggeva i marinai durante il lungo viaggio.

La figura del Santo affascinò anche i coloni inglesi: è del 1809 il libro “Una storia di New York” in cui si parla di “Sancte Claus“, un vescovo in miniatura che nella notte di Natale volava sui cieli in groppa ad un cavallo bianco portando doni. Nel 1921 apparve un poemetto di William Gilley in cui “Sante Claus”, vestito di pelliccia, guidava una slitta trainata da una renna e portava i suoi doni. Due anni dopo, seguì il racconto di Clement Clarke Moore, nel quale si legge che la notte della vigilia di Natale un piccolo uomo sfrecciava nei cieli su una slitta trainata da otto renne, ognuna con il suo nome, recando doni a tutti i bambini del mondo.

 

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