Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana: composizione e funzioni

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Si sente sempre parlare del consiglio dei ministri, delle sue elezioni, delle sue riunioni, ma non tutti sanno da chi è composto e quali funzioni svolge. Il consiglio dei ministri della repubblica italiana è l’organo collegiale che riunisce tutti i ministri (con e senza portafoglio) sotto la direzione del presidente del consiglio (attualmente Paolo Gentiloni) e svolge funzioni relative al potere esecutivo. Vediamo con ordine quali sono la composizione e le funzioni del consiglio dei ministri della repubblica italiana.

Cos’è il consiglio dei ministri?

ll consiglio dei ministri della repubblica italiana è uno degli organi che compongono il governo e, precisamente, l’organo collegiale che riunisce i ministri sotto la presidenza del capo di governo [1]. Esso è, naturalmente, presieduto dal presidente del consiglio ed è composto da tutti i ministri con e senza portafoglio. Ad eccezione del sottosegretario alla presidenza del consiglio (che esercita le funzioni di segretario del collegio), nessun altro sottosegretario di stato ha titolo per partecipare alle sedute del consiglio.

Il consiglio dei ministri è convocato dal presidente che decide anche l’ordine del giorno: la verbalizzazione delle riunioni è curata dal sottosegretario di stato alla presidenza del consiglio il quale è tenuto anche a curare la conservazione del registro delle deliberazioni.

In caso di assenza o impedimento temporaneo del presidente, le riunioni del consiglio dei ministri sono presiedute dal vicepresidente e, qualora vi siano più vicepresidenti, dal più anziano secondo l’età. Poiché il vicepresidente è una figura eventuale nella composizione del governo, se non è stato nominato, le sue funzioni sono svolte dal ministro più anziano per età (vi è un apposito regolamento che disciplina sia la partecipazione alle riunioni del consiglio sia le modalità di convocazione dello stesso) [2].

Che funzione ha il consiglio dei ministri?

Il nostro ordinamento non riconosce all’organo di vertice del governo un ruolo preminente rispetto a quello degli altri ministri, riservando quindi all’intero consiglio dei ministri (inteso come organo collegiale) le funzioni più rilevanti del potere esecutivo. Spettano, infatti, a quest’ultimo:

  • le deliberazioni sui disegni di legge di iniziativa governativa [3];
  • l’adozione degli atti aventi forza di legge(ovvero decreto legge e decreto legislativo) e dei regolamenti governativi [4];
  • la decisione di impugnare gli statuti regionali [5];
  • l’azione o la resistenza in giudizio nei conflitti di attribuzione e nel giudizio in via principale di fronte alla corte costituzionale;
  • la risoluzione dei conflitti tra i singoli ministri;
  • la nomina dei più alti funzionari dell’apparato civile e militare (quali prefetti, ambasciatori, capi di stato maggiore ecc.).

Ciò significa che l’Italia ha voluto affidare le decisioni più importanti (e le funzioni più delicate) non al singolo ma ad un collegio che fosse maggiormente rappresentativo della collettività e che garantisse l’adozione di decisioni maggiormente imparziali.

Il consiglio dei ministri determina la politica generale del governo e, ai fini della sua attuazione, l’indirizzo generale dell’azione amministrativa [6]; esso delibera, inoltre, su ogni altra questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le Camere.

note

[1] Art. 92 Cost.

[2] regolamento adottato con decreto del presidente del consiglio il 10.11.1993, previa deliberazione del  consiglio stesso.

[3] Art. 71 Cost.

[4] Artt. 76 e 77 Cost.

[5] Art. 123 Cost.

[6] Art.2 L. n.400 del 1988.

Qual è l’orario minimo part time?

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La legge non stabilisce un numero minimo di ore per il contratto di lavoro subordinato a tempo parziale: a questo “vuoto normativo” suppliscono, però, i contratti collettivi, che prevedono dei tetti orari minimi per il dipendente part time. Bisogna però osservare che ci sono dei contratti collettivi nazionali che non prevedono un monte ore minimo per il tempo parziale:

  • il ccnl intersettoriale commercio, terziario, servizi, pubblici esercizi e turismo di Cifa e Confsal;
  • il ccnl alimentare e panificazione;
  • il ccnl acconciatura-estetica- centri benessere;
  • il ccnl artigiani e pmi.

Mancando una disciplina del lavoro a tempo parziale che consente l’assenza di un orario minimo, è possibile assumere un dipendente anche per farlo lavorare soltanto un giorno alla settimana, oppure soltanto per alcune settimane nel mese, o, ancora, per alcuni mesi nell’anno.

Tuttavia, bisogna prestare particolare attenzione: l’assenza di un orario minimo non consente la stessa flessibilità che invece consente il nuovo contratto di prestazione occasionale (nuovi voucher) o il lavoro a chiamata. Vediamo perché.

Orario minimo ma predeterminato

Nonostante i contratti collettivi elencati non prevedano un monte ore minimo per il tempo parziale, questo non significa che il datore di lavoro possa chiamare il dipendente quando vuole: l’orario part time, difatti, per quanto esiguo deve essere organizzato e deve esserci una continuità nello svolgimento della prestazione di lavoro.

Se, ad esempio, il lavoratore presta la propria attività per poche ore tutti i sabati, sicuramente la continuità dell’attività sussiste, per quanto l’orario sia ridotto; lo stesso vale nel caso in cui il dipendente lavori per una settimana al mese, o per pochi mesi all’anno.

I contratti di lavoro a tempo parziale che non dispongono un orario minimo, quindi, devono comunque indicare con precisione la collocazione delle ore di lavoro: l’accordo collettivo, in particolare, prevede che nel contratto di lavoro part time sia contenuta una puntuale indicazione dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno.

Variazione dell’orario di lavoro

Il datore di lavoro non può utilizzare il contratto part time “minimo” senza indicare l’orario di lavoro: non può quindi decidere di chiamare il lavoratore a sua discrezione, perché il dipendente deve conoscere in anticipo il suo orario. Pertanto, se il datore di lavoro non è in grado di stabilire quando potrebbe aver bisogno del dipendente, il contratto a tempo parziale senza il tetto orario minimo non è adatto, ma dovrà utilizzare il lavoro a chiamata (ricordando che il lavoratore non può avere più di 24 anni o meno di 55 anni), oppure il nuovo contratto di prestazione occasionale.

È comunque possibile ottenere un minimo di flessibilità, aumentando le ore di lavoro inizialmente previste da contratto, con l’inserimento di apposite clausole elastiche: le clausole elastiche, nel dettaglio, possono consentire sia l’aumento dell’orario di lavoro che la sua variazione. Queste clausole devono però essere previste in un’apposita pattuizione scritta, anche contestuale al contratto di lavoro.

Clausole elastiche e lavoro supplementare

Se le clausole elastiche comportano un aumento dell’orario di lavoro stabilito nel contratto comportano, secondo la maggior parte dei contratti collettivi, una maggiorazione della paga oraria.

Il contratto collettivo intersettoriale commercio, terziario, servizi, pubblici esercizi e turismo [1], ad esempio, prevede una maggiorazione del 15%. La maggiorazione non è dovuta se la modifica è definitiva e accettata dal lavoratore, o se richiesta da lui stesso. Il contratto collettivo prevede inoltre l’obbligo di preavviso di almeno 2 giorni lavorativi e che il lavoro supplementare non ecceda il limite del 25% della normale prestazioneannua part time.

Se gli accordi collettivi non prevedono nulla, si deve applicare una maggiorazione pari al 15%, secondo quanto stabilisce il testo unico sui contratti [2].

note

[1] Art. 156 Ccnl intersettoriale commercio, terziario, servizi, pubblici esercizi e turismo  Cifa e Confsal.

[2] D.lgs. 81/2015.

Halloween

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Festa macabra celebrata nella notte fra il 31 di ottobre e il primo di novembre

contrazione scozzese settecentesca dell’inglese [Allhallow’s-even], ‘Vigilia di Ognissanti’.

Di anno in anno questo nome, con la festa che descrive, anche dalle nostre parti si afferma con forza sempre maggiore. Sappiamo tutti sfatarla affermando che il suo volano è stato economico, anzi consumistico, ma in Halloween c’è qualcosa di estremamente curioso.

Gli antropologi mi perdoneranno l’essenzialità della trattazione: si sente dire comunemente che si tratta di un’antica festa celtica (Samhain), una festa di capodanno che segnava la fine dei raccolti e l’inizio della stagione fredda, periodo in cui è importante stringersi e affermare la comunità. Si svolgeva fra il 31 ottobre e il 1° novembre, in quello che si credeva un interregno fra i due anni, momento in cui il mondo dei vivi e quello dei morti si toccavano. E i nostri avi romani, che dinanzi a feste e divinità straniere non facevano mai una piega, vi riconobbero i meccanismi di certe liturgie che loro celebravano durante i Lemuria o i Parentalia: tutte feste in cui gli spiriti dei morti venivano esorcizzati, celebrati, placati.

Nel 609 papa Bonifacio IV isituì la festa di Ognissanti, da celebrare il 13 maggio (data in cui venivano festeggiati i Lemuria romani); il secolo successivo papa Gregorio III la spostò però al 1°novembre, così da installarla sul Samhain celtico. E questa è una tattica ricorrente: la festa pagana viene esaugurata e coperta con una nuova festa riconsacrata alla religione cristiana. Ma con la Riforma luterana (di cui giusto in questi anni ricorre il cinquecentesimo anniversario, auguri Martin) la festa voluta dal papa smise d’esser celebrata nei territori protestanti. Svestiti i panni cristiani, tornò laica, tornò pagana – pur mantenendo un nome cristiano ed evolvendo carsicamente nei secoli fino all’Halloween che conosciamo oggi, coi suoi simboli macabri e le usanze grottesche.

Ma c’è una cosa in particolare che colpisce nell’emersione di una festa del genere dalle nostre parti e in questi tempi così progrediti. Vi rimane intatto uno dei meccanismi antropologici di base di tante feste che riguardano i morti e il contatto con gli spiriti: il gioco drammatico in cui gli spiriti che devono essere placati sono rappresentati dai bambini, più vicini alla nascita, morti ritornati che chiedono un’offerta per la loro benevolenza, per scongiurare la loro funesta rivalsa. Pare straniante, ma anche nel nostrissimo Natale c’è il profilo di un tributo del genere.

Insomma, è una celebrazione meno superficiale di quanto l’analisi economica e la diffidenza verso una festa straniera ci portano a pensare.

Assegno ordinario di invalidità e assegno di invalidità civile

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 Nell’approfondimento che segue ci soffermeremo su due forme assistenziali in grado di garantire alcuni fondamentali diritti dei cittadini  che spesso vertono in condizioni svantaggiate: Assegno mensile di invalidità civile e Assegno ordinario di invalidità.

Prima di esaminare tali fattispecie, offriremo brevi cenni introduttivi relativi all’art. 38 della nostra Costituzione che rappresenta, senza alcun dubbio, il principio ispiratore dell’argomento trattato.

  Cenni di introduzione

L’articolo 38 della Costituzione Italiana ha riconosciuto ad “ogni cittadino inabile e sprovvisto dei mezzi necessari” il “diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Una  garanzia che si spinge, nel secondo comma,  a stabilire nei confronti dei lavoratori il “diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Con il primo comma viene evidenziato come lo Stato si fa carico in prima persona dell’assistenza sociale, cioè di quelle misure che servono a garantire un adeguato tenore di vita anche a chi è titolare di un reddito inferiore ad una certa soglia e non può procurarsi altre entrate, ad esempio perché invalido di guerra o inabile al lavoro per malattia.

Queste misure si sostanziano, tra le altre, in corresponsione di pensioni di invalidità e guerra o in agevolazioni per la fruizione di servizi.

Il secondo comma, del suindicato articolo costituzionale, si occupa, invece,  della previdenza sociale che, a differenza dell’assistenza, concerne i soli lavoratori.

Essa si sostanzia in prestazioni economiche e sanitarie per tutelare il lavoratore, oltre che dai rischi lavorativi di infortuni, invalidità anche da eventi naturali quali la vecchiaia: si tratta quindi di una previdenza sociale obbligatoria, che grava in parte sullo Stato ed in parte sui datori di lavoro, salvo che i lavoratori scelgano di integrare queste misure con forme private di tutela.

Pertanto, lo scopo della previdenza sociale è teso a riconoscere o meglio consentire al soggetto una vita dignitosa.

Nel tempo si sono susseguite numerose disposizioni di legge volte a limitare o condizionare il diritto a queste forme di tutela e tali interventi sono stati ritenuti legittimi per la necessità di contemperare questo diritto con le risorse finanziarie disponibili.

Un’ ulteriore  considerazione risulta necessaria al fine di evidenziare come il principio che ispira l’art.38 della nostra Costi­tuzione non discrimini i soggetti in base alla loro na­zionalità o provenienza, ma, al contrario, comprenda nel concetto di “cittadino inabile” l’individuo presente sul territorio dello Stato senza distinzioni di razza o nazionalità, pur se in ogni caso in presenza di determinati requisiti.

Sul piano concreto tali forme di assistenza hanno as­sunto, nel corso degli anni e per effetto di normative che si sono via via adeguate alle circostanze, natura e agevolazioni sia di tipo economico che di tipo non economico. Alle prime fanno riferimento, per esem­pio, le prestazioni di invalidità civile e quelle di inabi­lità. Alle seconde appartengono tutte quelle agevo­lazioni di tipo fiscale o altre forme di sostegno come l’assistenza sanitaria, i permessi ex L. n.104/92, le quali, seppur non monetizzate per il cittadino, rap­presentano pur sempre un costo per lo Stato.

In particolare, tra le prestazioni di tipo economico figurano l’Asse­gno mensile di invalidità civile e l’Assegno ordinario di invalidità (AOI).

La sostanziale distinzione fra que­sti due tipi di assegno consiste nel fatto che il pri­mo è un assegno slegato dal requisito contributivo o assicurativo e concesso a fronte del solo requisito sanitario ai soggetti che si trovano in uno stato di bi­sogno e, pertanto, con redditi personali al di sotto di determinati limiti, mentre il secondo (AOI) è una prestazione che lega al requisito sanitario anche la sussistenza del requisito contributivo, con un’eviden­te e conseguente differenza di importo e di natura.

Assegno mensile di invalidità civile

L’Assegno mensile di invalidità civile è una prestazio­ne concessa a tutti i cittadini, sia italiani che stranieri, che non hanno o non possono far valere periodi con­tributivi o assicurativi sufficienti ad accedere ad altri tipi di prestazione.

L’art.13, co.1, L. n.118/71, e successive modifiche, ha stabilito che: “Agli invalidi civili di età compresa fra il diciot­tesimo e il sessantaquattresimo anno nei cui con­fronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura pari o superiore al 74 per cento, che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste, è conces­so, a carico dello Stato ed erogato dall’INPS, un assegno mensile di euro 279,471 per tredici men­silità, con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di cui all’arti­colo 12″.

Si tratta, pertanto, di una prestazione di tipo assi­stenziale, non reversibile, concessa in presenza es­senzialmente di due requisiti ossia la parziale riduzione della capacità lavorativa e lo stato di bisogno economico rappresentato dal possesso di redditi assoggettabili all’Irpef inferio­ri a una determinata soglia stabilita annualmente per legge, il cui limite per il corrente anno 2016 è fissato in € 4.800,38.

Altri requisiti necessari per l’ottenimento della pre­stazione sono il requisito anagrafico, che da gennaio di quest’anno deve essere di età compresa fra i 18 e i 65 anni e sette mesi, oltre alla cittadinanza italiana.

Al compimento del 65° anno di età e sette mesi, l’As­segno di invalidità civile si trasforma in Assegno so­ciale. Possono accedere alla prestazione e alle stes­se condizioni economiche e sanitarie dei cittadini italiani anche i cittadini stranieri comunitari iscritti all’anagrafe del comune di residenza, ai sensi del D.L. n.30/07, e i cittadini extracomunitari legalmente sog­giornanti nel territorio dello Stato italiano, titolari del permesso di soggiorno di almeno un anno, anche se privi del permesso di soggiorno CE di lungo periodo.

Tuttavia, considerato che si tratta di una pre­stazione di tipo assistenziale non derivante da dirit­ti contributivi, risulta obbligatoria per tutti la residenza stabile e abituale sul territorio nazionale e l’assenza di svolgi­mento di attività lavorativa.

Ai fini dell’accertamento della condizione di as­senza di svolgimento di attività lavorativa, non è più necessaria l’iscrizione nelle liste speciali di collocamento, essendo sufficiente che l’interes­sato produca annualmente all’Inps una dichiarazione sostitutiva che attesti lo svolgimen­to o meno di prestazioni lavorative. Ciò è previsto dall’articolo 46 e se­guenti del testo unico di cui al decreto del Presi­dente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. Qualora tale con­dizione venga meno, lo stesso è tenuto a darne tempestiva comunicazione all’INPS.

È equiparato al mancato svolgimento di attività la­vorativa anche l’impiego presso cooperative sociali ai sensi della L. n.68/99, successivamente modificata dall’art.1, co.37, L. n.247/07, che regola l’inserimen­to lavorativo temporaneo con finalità formative non­ché la trasformazione, ai sensi del D.L. n.276/03, del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale relativamente ai lavoratori affetti da patologie on­cologiche e, infine, anche lo svolgimento di attività lavorativa, purché produca un reddito non superiore alla soglia di reddito individuale annualmente stabi­lita dalla legge, menzionata prima.

Va specificato che il requisito sanitario deve essere accer­tato dall’apposita commissione medica istituita presso il Centro medico legale dell’Inps territorialmente  competente.

La concessione dell’Assegno mensile di invalidità civi­le si genera obbligatoriamente dal rilascio del certifi­cato medico introduttivo prodotto dal proprio medi­co di base. Una volta ottenuto questo, successivamente, va presentata la domanda esclusivamente on-line e, indipendentemente dal momento in cui il requisito sanitario viene accertato, la prestazione decorre dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda, posto che ovviamente siano soddi­sfatti anche i requisiti amministrativi.

Tuttavia, bisogna precisare che,  se nel corso dell’iter di concessione mutano le condizioni di salute, anche a fronte di un peggioramento, non è possibile presen­tare una nuova domanda finché non si sia comple­tato il corso della prima istanza. A tale vincolo non soggiace la domanda di aggravamento presentata da paziente oncologico.

Nel caso di impugnazione di eventuale diniego da­vanti al giudice ordinario, unica strada possibile di opposizione al mancato riconoscimento da esercita­re entro e non oltre sei mesi dalla comunicazione di reiezione della domanda, l’ipotetica nuova domanda deve attendere che si sia concluso l’iter giudiziario e la sentenza sia passata in giudicato.

Altro aspetto fondamentale sul quale risulta necessario o meglio doveroso soffermarsi riguarda l’incompatibilità dell’assegno mensile di invalidità civile con qualsiasi pensione diretta di invalidità erogata a carico dell’assicurazione generale obbligatoria (AGO) delle gestioni sosti­tutive, esonerative ed esclusive, delle gestioni dei lavoratori autonomi, e delle altre Casse e Fondi di previdenza, compresi quelli dei liberi professioni­sti. Tale incompatibilità si estende, ai sensi della L. 412/1991, anche a tutte le prestazioni pensio­nistiche di invalidità contratte per cause di guer­ra, di lavoro o di servizio e, pertanto, anche con le rendite Inail.

In questo caso il titolare di rendita Inail può esercitare la facoltà di opzione se l’Assegno è più conveniente, senza perderne il diritto, opzione che quindi può esse­re rivista in qualunque momento. L’onere della comu­nicazione all’Inps di eventuale incompatibilità spetta al titolare invalido, anche se tale circostanza si verifica successivamente alla concessione dell’assegno.

Assegno ordinario di invalidità

L’Assegno ordinario di invalidità (AOI), istituito con la L. n.222/84, si basa su presupposti totalmente diversi dall’assegno mensile di invalidità civile, essendo una pre­stazione legata al principio della riduzione della ca­pacità lavorativa superiore ai 2/3 e alla presenza di un certo numero di contributi previdenziali, almeno cinque anni nell’intero arco lavorativo, di cui almeno tre nei cinque anni che precedono la presentazione della domanda. Anche in questo caso si tratta di una prestazione non reversibile, e cioè non trasferibile ai familiari superstiti, sebbene nel caso di decesso del titolare sia possibile per loro richiedere una pensio­ne indiretta.

Quindi possiamo confermare che l’AOI è una prestazio­ne che si rivolge ai lavoratori dipendenti, ai lavo­ratori autonomi e ai lavoratori parasubordinati. Non è prevista, invece, per i dipendenti del pub­blico impiego, per i quali sono state istituite altre forme di assistenza.

Inoltre, a differenza dell’Assegno di invalidità civile, l’AOI non è legato al requisito dell’età, ma vincolato, come det­to, alla sussistenza del requisito sanitario e ammini­strativo.

Per una maggiore chiarezza sul punto si osserva che, un lavoratore che abbia diritto all’AOI dal 1° giugno 2016 deve aver maturato almeno cinque anni di contributi nell’intera sua car­riera lavorativa, di cui almeno tre nel periodo compreso fra il 1° giugno 2011 e il 1° giugno 2016.

Sul merito del requisito sanitario, va chiarito che il concetto della riduzione della capacità lavorati­va di almeno 2/3 non è sovrapponibile al più ge­nerico concetto di invalidità.

Da ciò deriva che le tabelle di riferimento per la valu­tazione medico legale dell’invalidità civile non sono utili ai fini della concessione dell’AOI, poiché è  ne­cessario che la Commissione medica preposta valuti la riduzione della capacità di lavoro del richiedente in relazione a occupazioni confacenti le attitudini specifiche dell’assicurato. Ne consegue che tale cri­terio è strettamente correlato alla particolare situazione dell’individuo e che il giudizio medico le­gale deve tenere presente, oltre alla condizione pu­ramente sanitaria, anche un complesso di elementi relativi alla personalità e alla storia del lavoratore, come sesso, età, livello raggiunto, adattabilità e, non ultimo, l’usura lavorativa in relazione alle attività possibili e non soltanto in relazione al lavoro effetti­vamente prestato.

Per quanto riguarda invece il requisito contributivo, dal calcolo dei periodi utili vanno esclusi i periodi di congedo parentale, il lavoro subordinato eventual­mente prestato all’estero, se non coperto da assicu­razioni in convenzioni internazionali, il servizio milita­re per il periodo eventualmente eccedente il servizio di leva, la malattia superiore ai dodici mesi e i periodi di iscrizione a forme obbligatorie di previdenza che non producano il diritto a pensione. In presenza di tali circostanze, i periodi interessati sono considerati neutri, con l’effetto di dilatare il quinquennio di rife­rimento per il periodo neutro corrispondente.

Come per l’assegno mensile di invalidità civile, anche per l’AOI la prestazione decorre, indipenden­temente dal momento in cui il requisito sanitario vie­ne accertato, dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda.

Va fatto notare che l’AOI ha carattere temporaneo e una durata inizialmente triennale, può essere confer­mato solo su domanda dell’interessato, da presentar­si entro sei mesi dalla scadenza naturale della presta­zione e dopo tre conferme consecutive, compreso il primo riconoscimento, l’AOI diviene definitivo.

Ai sensi dell’art.9, co.1, L. n.222/84, l’Ente erogato­re dell’assegno, in questo caso l’Inps, può disporre però in ogni momento un nuovo accertamento, in­dipendentemente sia prima della scadenza naturale dell’assegno che successivamente all’avvenuta con­ferma definitiva. In ogni caso la revisione sanitaria è d’obbligo qualora il titolare dell’AOI abbia prodotto un reddito da lavoro dipendente, autonomo, pro­fessionale o d’impresa superiore a tre volte il tratta­mento minimo, poco più di € 1.500,00 per il corrente anno 2016, nell’anno precedente all’erogazione del­la prestazione.

L’AOI, come si è appena visto, è compatibile con l’attività lavorati­va, e ciò deriva anche dal fatto che la norma argina il requisito sanitario per la concessione a 2/3 della ca­pacità lavorativa, riconoscendo pertanto un possibi­le spazio residuo per svolgere altra attività retribuita.

Non è invece compatibile con il trattamento di disoccupazione la c.d. NASpI. È tuttavia possibile per il lavoratore esercitare la facoltà di opzione per il trattamento più conveniente.

Vale la pena segnalare, però, che se il lavoratore che ha optato per il trattamento di disoccupazio­ne rinuncia alla NASpI e ottiene il ripristino dell’A­OI, tale scelta ha carattere irreversibile e non è più possibile accedere alla trattamento di disoc­cupazione eventualmente residuo non goduto.

Spunti conclusivi

In riferimento a tali forme assistenziali assistiamo ad una trasformazione della concezione mutualistica dell’assistenza sociale. Infatti, tale forma di assistenza in passato era riservata solo ad una circoscritta  categoria di lavoratori o di soggetti assicurati.

Attualmente, invece, ci troviamo di fronte ad una concezione più inclusiva, basata piuttosto sul principio della solidarietà di tutti nei confronti di quegli individui più svantaggiati, con l’obiettivo di costruire uno stato sociale che tuteli la dignità umana e assicuri a tutti i suoi componenti, indipendentemente  dalla loro condizione contributiva e assicurativa, forme di assistenza tali da garantire un sostegno economico e una reale partecipazione alla vita sociale della comunità.

scritto il 17/06/2016 da Studio Cafasso

http://www.cafassoefigli.it/notizie/2456/assegno-ordinario-di-invalidit-e-assegno-di-invalidit-civile

Invalidi civili – Incompatibilità dell’assegno mensile di assistenza

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Incompatibilità e cumulabilità dell’assegno mensile d’invalidità civile con altre prestazioni pensionistiche erogate a titolo d’invalidità.

 Hanno diritto all’assegno mensile di assistenza gli invalidi civili a cui sia stata riconosciuta un’infermità fisica o mentale tale da provocare una riduzione della capacità di lavoro, con percentuale pari o superiore al 74% fino al 99%.

L’assegno mensile di invalidità civile è incompatibile con:

  • le pensioni dirette di invalidità erogate a qualsiasi titolo dall’assicurazione generale obbligatoria per la invalidità, vecchiaia e superstiti dei lavoratori (INPS), e da altri enti, ai lavoratori   dipendenti e autonomi (art. 9, Legge 26 febbraio 1982, n. 54 ; art.1, comma 12, Legge 12 giugno 1984, n. 222 ).
  • pensioni dirette di invalidità per causa di guerra, di lavoro (INAIL) o di servizio,  quindi anche con la rendita INAIL (Circolare INAIL, n. 54/93 – art. 3 Legge 407/90 – art. 12, Legge n. 412/91 – Decreto 553/92)
  • indennità di accompagnamento INAIL, INPS e altri Enti

Scelta fra diverse provvidenze economiche opzionabili:
Nel caso di incompatibilità con altre provvidenze economiche, è possibile operare una scelta fra le diverse provvidenze economiche opzionabili: è infatti data facoltà all’interessato di optare per il trattamento economico più favorevole. La facoltà di opzione deve essere esercitata entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento del trattamento pensionistico incompatibile (D.M. 553/92).

Solo nel caso di pluriminorazioni, l’assegno è cumulabile con:

  • la pensione dei ciechi assoluti
  • l’indennità di accompagnamento per ciechi assoluti
  • la pensione dei ciechi parziali
  • l’indennità speciale per ciechi parziali
  • la pensione dei sordi civili
  • indennità di comunicazione per sordi civili

Differenza tra assegno mensile per invalidità civile e assegno ordinario di invalidità (IO)

L’assegno mensile per invalidi civili, pur essendo materialmente erogato dall’INPS, non è subordinato alla presenza di requisiti contributivi, trattandosi di una prestazione assistenziale.

Infatti, possono essere considerati invalidi civili tutte le persone, indipendentemente dall’età, e dall’attività lavorativa, in presenza di una qualsiasi menomazione: perdita o anomalia di una struttura o di una funzione, sul piano anatomico, fisiologico, psicologico. La visita medica per l’accertamento dell’invalidità civile è effettuata dalle commissioni mediche dell’ASL.

L’assegno ordinario di invalidità (Categoria IO), invece, pur basandosi sugli stessi requisiti di stato di salute (infermità fisica o mentale tale da provocare una riduzione permanente della capacità di lavoro, non inferiore a due terzi), è subordinato anche alla presenza del seguente requisito: contribuzione pari a 5 anni, di cui almeno 3, versati nei cinque anni precedenti la domanda; essere assicurato presso l’INPS da almeno 5 anni. Si tratta, dunque, di una prestazione previdenziale e la visita per l’accertamento dell’invalidità viene effettuata dalla commissione medica dell’INPS. In altre parole, questo beneficio può essere richiesto soltanto da coloro che svolgono attività lavorativa.

Incompatibilità tra le due provvidenze economiche
Si tratta, dunque, di due provvidenze economiche distinte e incompatibili fra loro. Pertanto, chi percepisce l’assegno mensile di invalidità civile non ha diritto all’assegno ordinario di invalidità (IO), così come chi percepisce l’assegno ordinario di invalidità non ha diritto all’assegno mensile concesso per invalidità civile. Resta salvo il diritto di opzione.
RIFERIMENTI NORMATIVI

  • Legge 26 febbraio 1982, n. 54: Conversione in legge e modifica del Decreto Legge 22.12.1981, n. 791, art. 9: Disposizioni in materia previdenziale (G.U. del 01.03.1982, n. 58)
  • Legge 12 giugno 1984, n. 222: Revisione della disciplina dell’invalidità pensionabile (Pubblicata nella G. U. del 16 Giugno 1984 , n. 165)
  • Legge 29 dicembre 1990, n. 407: Disposizioni diverse per l’attuazione della manovra di finanza pubblica 1991-1993 (G.U. del 31.12.1990, n. 303)
  • Legge 30 dicembre 1991, n. 412: Disposizioni in materia di finanza pubblica (G.U. del 31.12.1991, n. 305)
  • Ministero dell’Interno – Decreto Ministeriale 31 ottobre 1992, n. 553 :Regolamento recante disposizioni per l’accertamento delle condizioni reddituali e degli obblighi di comunicazione da parte dei mutilati ed invalidi civili, dei ciechi civili e dei sordomuti, nonché per l’eventuale revoca delle prestazioni e per la disciplina del diritto di opzione, in attuazione dell’art. 3, comma 2, della legge 29 dicembre 1990, n. 407 (G.U. n. 24 del 30 gennaio 1993)
  • Circolare n. 54 del 9 dicembre 1993Legge 29 dicembre 1990, n. 407, articolo 3 – Decreto Ministeriale n. 553 del 31 ottobre 1992. Incompatibilità dell’assegno mensile erogato dal Ministero dell’interno agli invalidi civili parziali con le prestazioni ed i trattamenti pensionistici di invalidità erogati da Enti e gestioni previdenziali. Facoltà di opzione.

 

di Gabriela Maucci

https://www.superabile.it/cs/superabile/invalidi-civili–incompatibilita-dellassegno-mensile-di-assi.html

 

Quando la polizia postale blocca il computer

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Molti utenti di internet si sono trovati alle prese con un “programma maligno” (malware)che ha reso inservibile il proprio computer. Poiché nella schermata compare il logo della polizia postale, si è indotti a credere che siano state proprio le autorità a bloccare il sistema, probabilmente perché in presenza di un reato. Il timore, pertanto, non è legato tanto all’inutilizzabilità del pc, quanto alla paura di essere incorsi in un crimine. In realtà non è così. Vediamo quando e se la polizia postale blocca il computer.

La polizia postale: cos’è

La polizia postale e delle comunicazioni è un corpo specializzato della Polizia di Statoche si occupa di reprimere i reati legati all’utilizzo dei mezzi di comunicazione (internet in primis) e di tutelare, più in generale, la sicurezza e la regolarità dei servizi delle telecomunicazioni. Gli agenti di questo corpo sono reclutati tra coloro che dimostrano una forte propensione all’utilizzo delle tecnologie e una grande attitudine al mondo dell’informatica, oltre che una seria preparazione.

Tra gli altri, la polizia postale si occupa di combattere i seguenti reati:

  • Pedopornografia: diffusione del materiale pedopornografico attraverso la rete telematica; acquisto e commercializzazione del materiale illecito; detenzione dello stesso. La polizia postale è l’unica delegata all’acquisto simulato di materiale, per scoprire chi si nasconde dietro un sito contenete immagini pedopornografiche.
  • Cyberterrorismo:diffusione di virusmalware o comunque di tutti quei programmi che possono ledere la privacy o creare danni economici; attività di hackeraggio;
  • Download illegale: violazione del diritto di copyright delle opere dell’ingegno attraverso circuiti di condivisione di file (cosiddetti file-sharing) o altri metodi;
  • Truffe sui conti on line: la polizia postale cerca di impedire le truffe che consentono ad estranei di accedere ai conti di home banking (come avviene, ad esempio, con il phishing);
  • Giochi e scommesse on line: monitoraggio della rete al fine di scovare siti dedicati al gioco d’azzardo non autorizzato dal Ministero delle Finanze – Amministrazione autonoma monopoli di Stato

La polizia postale, inoltre, collabora costantemente con le autorità estere al fine di fronteggiare i crimini legati al mondo di internet (cosiddetto cybercrime) che, per loro natura, non hanno confini. Fondamentale, poi, nell’attività di repressione dei reati informatici, la collaborazione con i gestori dei servizi di telecomunicazione, degli Internet Service Provider, dei fornitori di connettività e degli altri operatori della rete.

La polizia postale può bloccare il computer?

Contrariamente a quanto si possa pensare, la polizia postale non può bloccare il computer di un cittadino attraverso l’utilizzo di virus che lo rendano inservibile. Sarebbe un paradosso: la polizia postale combatte proprio la diffusione dei “programmi maligni” (cosiddetti malware) trattandosi di condotta costituente reato (si va dall’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico al danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici).

Esclusa questa possibilità, va subito detto che la polizia postale, se ritiene che nel corso della sua attività si trovi in presenza di un fatto costituente reato, può procedere direttamente con la perquisizione e l’eventuale sequestro del computer. Secondo il codice di procedura penale,  quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, ne viene disposta la perquisizione, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione [1]. La perquisizione è disposta con decreto motivato dell’autorità giudiziaria, salvo nei casi di particolare urgenza o di flagranza di reato: in tali circostanze, infatti, gli ufficiali di polizia giudiziaria, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione, procedono alla perquisizione di sistemi informatici o telematici, quando hanno fondato motivo di ritenere che in questi si trovino occultati dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato che possono essere cancellati o dispersi [2]. In questo caso la polizia redige accurato verbale da trasmettere entro quarantotto ore al pubblico ministero competente, il quale avrà a sua volta altre quarantotto ore di tempo per convalidare le operazioni.

Le tecniche di indagine della polizia postale

Accertato che la polizia postale non blocca alcun computer, vediamo brevemente quali tecniche utilizza per svolgere le sue indagini. La polizia postale si avvale di intercettazioni di comunicazioni informatiche e telematiche ; duplicazione delle caselle di posta elettronica utilizzate dall’indagato, in modo da rilevarne il contenuto; perquisizione e successivo eventuale sequestro del materiale (non solo computer, ma anche supporti rigidi come pen drive e compact disc); ispezione volta solamente ad ottenere la masterizzazione delle tracce di reato presenti sul computer. In buona sostanza, quindi, la polizia postale utilizza gli stessi strumenti concessi dall’ordinamento giuridico ad ogni altro corpo di polizia.

note

[1] Art. 247 cod. proc. pen.

[2] Art. 352 cod. proc. pen.

Autore immagine: Pixabay.com

Bollo auto: prescrizione arretrati a tre, cinque o dieci anni?

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È sempre caldo il tema della prescrizione degli arretrati del bollo auto: oltre all’incertezza di fondo che ha da sempre caratterizzato l’argomento – un po’ per le alterne decisioni della giurisprudenza, un po’ per le diverse discipline regionali – ora si è aggiunta anche la disposizione inserita nella bozza della legge di bilancio 2018 che vorrebbe portare la prescrizione a 10 anni. Una notizia che, come prevedibile, ha allarmato i contribuenti e fatto gridare allo scandalo: in gioco c’è la violazione delle basilari norme di diritto, visto che il Governo calpesterebbe l’interpretazione più favorevole agli automobilisti fornita, di recente, dalle Sezioni Unite, interpretazione che vorrebbe la scadenza della tassa automobilista sempre in tre anni. Cerchiamo allora di dipanare la matassa e vedere, allo stato attuale, se la prescrizione degli arretrati del bollo auto è di tre, cinque o 10 anni.

 

Bollo auto: la prescrizione è di tre anni

Il punto da cui partire è sempre la legge. La normativa in materia di bollo auto stabilisce che la tassa automobilistica si prescrive in tre anni [1]. Il termine inizia a decorrere dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui è dovuto il pagamento. Così il bollo da versare nel 2017 si prescrive il 31 dicembre 2020, con la conseguenza che ogni richiesta di pagamento pervenuta dal 1° gennaio 2021 in poi è illegittima.

Bollo auto: la decadenza è di due anni

Se l’automobilista non versa spontaneamente il bollo auto, la Regione gli invia un avviso di pagamento con la «mora» (nelle Regioni a Statuto speciale la competenza è dell’Agenzia delle Entrate). Se l’inadempimento persiste, la Regione iscrive a ruolo l’importo e delega l’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) al recupero coattivo delle somme. Tradotto in termini pratici, significa che arriva la cartella di pagamento e, successivamente, si passa eventualmente al fermo auto e al pignoramento.

La cartella di pagamento deve essere notificata al contribuente entro massimo 2 anni da quando l’ente titolare del credito (Regione o Agenzia Entrate) iscrive a ruolo l’imposta non versata. Se questo termine viene superato e la cartella viene notificata successivamente, il diritto di riscossione si considera «decaduto» e nulla è più dovuto dal contribuente.

Per verificare la data di iscrizione a ruolo dell’imposta basta consultare il dettaglio della cartella esattoriale.

Bollo auto: la prescrizione della cartella di pagamento

A questo punto viene l’incertezza. Il dubbio che si è posto è se, una volta notificata la cartella esattoriale, la prescrizione del bollo resta di tre anni o è più lunga. In buona sostanza, cosa succede se, dopo la notifica della cartella esattoriale, l’Agente della Riscossione resta diversi anni con le braccia conserte e non avvia alcun pignoramento né notifica altri atti? Quando scade la cartella esattoriale del bollo auto? L’incertezza deriva dal fatto che nessuna legge stabilisce i termini di prescrizione dei tributi erariali. Sul punto si sono confrontati diversi orientamenti.

Prescrizione del bollo auto a 10 anni

Un primo orientamento, sposato ovviamente da Equitalia, riteneva che il bollo auto dovesse prescriversi in 10 anni una volta notificata la cartella e non impugnata nei 60 giorni. Questo perché la cartella non contestata, e quindi divenuta definitiva, sarebbe equiparabile a una sentenza e, come tutte le sentenze, avrebbe una prescrizione di 10 anni. Questa tesi è stata condivisa in passato anche dalla Cassazione con un isolato precedente [2].

Prescrizione del bollo auto a 5 anni

Ci sono stati anche giudici [3] che hanno ritenuto che la prescrizione degli arretrati del bollo auto sia di cinque anni e ciò in virtù del fatto che, a norma del codice civile [4], tutti i debiti che vanno pagati almeno una volta all’anno si prescrivono sempre in cinque anni. E non c’è dubbio che il bollo vada pagato tutti gli anni.

Prescrizione del bollo auto a 3 anni

Per risolvere questi dubbi, a fine 2016 è intervenuta finalmente la Cassazione a Sezioni Unite che ha detto: gli arretrati del bollo auto si prescrivono in 3 anni anche dopo la notifica della cartella esattoriale e anche se quest’ultima non viene impugnata nei 60 giorni. Ciò perché la cartella è un atto amministrativo e, anche se diventa definitiva, non può mai essere equiparata a un atto del giudice. Con la conseguenza che la scadenza del bollo è sempre la stessa sia prima che dopo la notifica della cartella di pagamento.

Questa tesi è stata di recente condivisa da numerosi giudici e, da ultimo, dalla Commissione Tributaria Regionale della Sardegna [6].

Bollo auto: prescrizione e riforma

Tutto ciò che abbiamo appena detto è tutt’ora valido. Quindi, al momento, tra tutte le tesi, quella della prescrizione di tre anni del bollo auto è sicuramente quella più certa e accreditata. Non conta il fatto che ogni Regione possa avere delle proprie regole. La prescrizione è uguale in qualsiasi parte d’Italia.

Tuttavia, il Governo vorrebbe inserire una norma di «interpretazione autentica» – e quindi con valore retroattivo, efficace anche per i debiti pregressi – che porterebbe la prescrizione del bollo auto a 10 anni una volta notificata la cartella di pagamento. Almeno per i debiti anteriori al 31 dicembre 2017. Il risultato sarebbe che, chi riteneva di essersi già liberato del tributo per avvenuta prescrizione, ritornerebbe ad essere debitore. Perché ciò possa considerarsi definitivo, però, bisognerà valutare i successivi sviluppi della legge di bilancio 2018.

note

[1] Art. 5, co 51, Dl 953/1982.

[2] Cass. sent. n. 4283/2010 secondo il quale l’assenza di una norma che stabilisca i termini di prescrizione dei tributi erariali renderebbe applicabile il termine ordinario decennale: a sostegno di questa tesi si richiama l’articolo 2946 cod. civ., secondo il quale «salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni».

[3] Ctp Avellino, sent. n. 267/2017; Ctr Catanzaro sent. n. 173/16.

[4] Art. 2948, n. 4) cod. civ.

[5] Cass. S.U. sent. n. 23397/2016

[6] Ctr Sardegna sent. n. 221/5/2017.

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In arrivo la tassa per comprare frutta e verdure

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Dal 1 gennaio 2018 si dovrà pagare una tassa anche sui sacchetti trasparenti dove si infilano frutta e verdure. Multe per i negozi che non si adeguano

Quanto a tasse, nel mondo, non ci invidia davvero nessuno. Qualsiasi cosa si voglia fare in Italia, c’è sempre dietro una qualche tassa o imposta da pagare. È vero, per respirare non si pagano tasse, ciononostante il Fisco ci insegue proprio “fino alla morte”. Ed infatti, è  attualmente all’esame del Senato un disegno di legge sulla disciplina delle attività funerarie, volto all’introduzione della “macabra” tassa sulla morte. Per approfondimenti sul punto leggi: In arrivo la macabra “tassa sulla morte”. Si era pensato addirittura di introdurre una tassa sull’ombra. Non è uno scherzo: avete capito bene, proprio sull’ombra, quella proiettata sul suolo pubblico dalle insegne e dalla cartellonistica di negozi e attività commerciali. Ma le sorprese non sono finite qui. Da gennaio 2018, si dovrà mettere mano al portafoglio anche per pagare i sacchetti della spesa. Attenzione: non quelli disponibili alle casse dei vari supermercati, che il più delle volte vengono già fatti pagare. Stiamo parlando di una cosa diversa e cioè dei sacchetti trasparenti ed ultraleggeri dove si infilano frutta e verdure per poi pesarli, ritirare lo scontrino, incollarlo sul sacchetto e recarsi alla cassa. Si tratta di un nuovo balzello introdotto dal cosiddetto decreto Mezzogiorno [1]

La tassa sui sacchetti ultraleggeri per l’ortofrutta

Dal 1 gennaio 2018 si dovranno pagare i sacchetti trasparenti ed ultraleggeri. La spesa, in concreto, non sarà eccessiva.  I consumatori però saranno comunque costretti a svuotare ulteriormente le proprie tasche per rimpinguare le casse dell’amministrazione finanziaria. Si tratterà di pochi centesimi a sacchetto, l’ipotesi è di 10 centesimi l’uno. Ma considerando che per ogni tipo di frutta e ortaggio occorrerà utilizzare un singolo sacchetto, in quanto i diversi prodotti hanno ovviamente prezzi differenti, si capisce subito quali potenzialità di introito ha il nuovo tributo.  Quindi, se si vuole riempire il frigorifero con mele, pomodori, patate, insalata e carote occorreranno cinque sacchetti e il consumatore pagherà cinque volte. Dunque, anche se si tratta di spiccioli, rimane il fatto che bisognerà mettere mano al portafoglio e poiché si tratta di consumo alimentare la spesa sarà inevitabile. Ognuno di noi, dunque, lascerà qualche euro in più rispetto ad oggi per la propria spesa, con i “migliori ringraziamenti” da parte del Ministro delle Finanze. Ciò in quanto, il ricavato è incassato dal supermercato o dal negozio, ma poi finirà in parte allo Stato sotto forma di Iva e di imposta sul reddito.

La tassa sui sacchetti e gli imprenditori del settore

Rivolgendosi agli imprenditori del settore, la legge che entrerà in vigore tra circa tre mesi precisa che le nuove buste non potranno essere distribuite gratuitamente e il prezzo di vendita dovrà risultare dallo scontrino o dalla fattura di acquisto delle merci. La nuova normativa è molto severa e prevede per il punto-vendita che non si adegui multe che partono da 2.500 euro e arrivano a 100mila nel caso in cui la violazione dovesse riguardare un ingente quantitativo di consumatori.

Addio alle vecchie buste

Per chi fa la spesa sarà vietato, per motivi di igiene, portarsi le buste “da casa” e ben presto le vecchie buste già presenti nei supermercati non potranno essere più utilizzate. Infatti, in accordo con l’Unione Europea, il Ministero dell’Ambiente ha emanato delle direttive secondo le quali dal 1 gennaio 2018 potranno essere utilizzati solamente sacchetti con un contenuto di materiale biodegradabile non inferiore al 40%. Percentuale che salirà fino al 60% nel 2021. Tutto ciò, se visto in un ottica ambientale è lodevole ed encomiabile, ma influirà inevitabilmente  sui costi di produzione dei sacchetti, che aumentando andranno ad incidere negativamente sulle nostre tasche e positivamente per quelle dello Stato.

note

[1] D.l. n. 91 del 20.06.2017 conv. dalla l. n. 123 del 03.08.2017 (in G.U. 12.08.2017 n. 188).

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