Strade ed aree aperte al pubblico: i doveri della P.A. tra proprietà ed uso

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La tipicità dei doveri connessi alla titolarità della proprietà delle strade in capo agli Enti Locali, nonché al più generale interesse pubblico negli ambiti della sicurezza e viabilità, si rinveniva già all’art. 28 dell’Allegato F della Legge n. 2248/1865 e nel successivo R.D. 2056/1923, recanti le disposizioni per la classificazione e manutenzione delle strade pubbliche, che trovano oggi compiuta regolamentazione nell’attuale testo del Codice della Strada (D.Lgs. n. 285/1992).

Sul tema in prima istanza occorre rilevare che, mentre il diritto di uso pubblico può esser fatto valere da ciascun residente, affinchè una strada possa ritenersi di proprietà della P.A. è necessario rinvenire un atto (convenzione o provvedimento ablatorio) o un fatto (usucapione) che ne abbia trasferito il dominio all’amministrazione: non è infatti di per sé sufficiente che la strada sia destinata all’uso pubblico (Cass. 8204/2006 che richiama una costante linea interpretativa).

Tanto premesso, all’art. 14 il Codice della Strada stabilisce che “gli enti  proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della  circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze; c) all’apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta”.  Significativamente nello stesso articolo si ritrova la disposizione per la quale i poteri dell’ente proprietario devono essere esercitati dal Comune per le strade vicinali di cui al precedente art. 2 comma 7. Il richiamo letterale dell’elenco vale per le strade urbane di quartiere, le strade locali e le strade comunque opportunamente sistemate per essere destinate alla circolazione di pedoni, veicoli e animali non facenti parte delle altre tipologie citate.

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Per quanto riguarda la destinazione, giova peraltro ricordare che il Codice sottopone all’applicazione delle proprie previsioni tutte le “aree” a uso pubblico destinate alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali. Conseguentemente, ai fini della corretta interpretazione normativa, la sede stradale risulta essere costituita tanto dalla superficie esistente entro i confini viari, quanto dalla carreggiata e dalle relative fasce di pertinenza: talché, nel concetto di area stradale vengono ricompresi banchine, golfi di fermata, isole di canalizzazione, fasce di sosta laterale, marciapiedi, parcheggi, piazzole di sosta e piste ciclabili, così come ogni altra qualsivoglia pertinenza di esercizio o di servizio, come previsto all’art. 24 del Codice.

Per quanto riguarda l’apertura all’uso pubblico in assenza di una specifica previsione o di un titolo facente capo all’ente pubblico, così come per l’eventuale mancato inserimento delle aree negli elenchi delle pubbliche vie, secondo giurisprudenza costante della Corte di Cassazione (tra le tante si veda la sentenza n. 1624/2010 Sezioni Unite) e del Consiglio di Stato (sentenza n. 1240/2011), sono quattro gli elementi atti a caratterizzare, in ogni caso, la sussistenza della destinazione di uso pubblico. Innanzitutto le condizioni effettive della via ovvero il passaggio o il transito esercitato da una collettività indeterminata di persone. Inoltre la concreta idoneità dell’area a soddisfare esigenze di interesse generale attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, la presenza di pubblici esercizi e strutture pubbliche, nonché la sussistenza di fatti o atti giuridici idonei a fondare il diritto di uso da parte della collettività.

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Tali elementi sono peraltro agevolmente identificabili, in primo luogo, proprio nell’attinenza delle caratteristiche dell’area stradale con la sopradetta classificazione di cui all’art. 2 del Codice della Strada, mentre secondo la giurisprudenza l’affermazione del diritto di uso pubblico sulle aree private (e conseguentemente non solo del diritto di transito ma anche del diritto reale minore di sosta da parte di una collettività territoriale distinta dai proprietari, a maggior ragione nel caso di pertinenze della sede stradale a uso pubblico) trova valido titolo anche nella mera protrazione dell’uso, consentito dall’ente proprietario, “da tempo immemorabile” o per il tempo sufficiente all’usucapione dello stesso.

Anche su questo punto si sono univocamente espressi Cassazione e Consiglio di Stato, nel senso di ritenere che la così detta dicatio ad patriam, consistente nel comportamento del proprietario del bene che denoti in modo univoco e continuativo la volontà di mettere l’area privata a disposizione di una comunità indeterminata di persone per soddisfarne le esigenze uti cives, sostanzi modalità concreta di costituzione dei diritti e delle servitù di pubblico uso: potendosi escludere la mera tolleranza dominicale proprio in virtù della protrazione nel tempo dell’uso, fattore che sarebbe di per sé antitetico e confliggente con l’assenza a monte di una volontà concessoria del pubblico uso (si vedano, tra le tante, Sezioni Unite Civili sentenza n. 1072/1988 e Cass. Civ. Sez. II  sentenza n. 6401/2005, Consiglio di Stato sentenza n. 3316/2007 e n. 728/2012).

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Ad abbondanza, sul tema si è pronunciata anche Cassazione Penale: “le norme sulla disciplina della circolazione stradale devono trovare piena applicazione anche su strada o spiazzo privato frequentati da un numero indistinto e più o meno rilevante di persone, concretandosi in tal caso una situazione di fatto del tutto corrispondente all’uso pubblico che diventa preminente rispetto alla natura privata dello spiazzo” (Sez. IV sentenza n. 7671/1983).

In conclusione, non è tanto la proprietà della strada quella conta, quanto l’uso effettivo della stessa (Cass. Civ. Sez. IV sentenza n. 23733/2012) e sul punto vale solo la pena ricordare che sebbene le servitù di uso pubblico sottopongano i beni che ne sono gravati ai poteri di regolazione spettanti all’autorità amministrativa, tali poteri restano limitati a quelli intesi a garantire l’uso del bene da parte della collettività in conformità ai dettami del pubblico interesse. L’Amministrazione non può, invece, disporre del bene ed esercitare su di esso i poteri che le competerebbero se questo appartenesse al proprio demanio (T.A.R. Lombardia Sez. III sentenza n. 466/2011).

(Altalex, 17 settembre 2014. Articolo di Francesca Pietropaolo)

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