Il dito medio.

Sembra un gesto moderno, figlio della rabbia da traffico o dei litigi sui social, eppure il dito medio — o digitus impudicus, come lo chiamavano i latini — ha origini antichissime e decisamente teatrali.

Nel mondo greco, già nel V secolo a.C., il gesto era ben noto. A testimoniarlo è niente meno che Aristofane, il celebre commediografo ateniese. Nella sua commedia Le Nuvole, andata in scena nel 419 a.C., un personaggio alza il dito medio in un contesto di scherno e ironia. Il gesto non era solo offensivo, ma caricava di significati osceni e simbolici, diventando un’arma comica e provocatoria nel teatro dell’antica Grecia.

I Romani non furono da meno: ereditarono il gesto dai Greci e gli diedero un nome che ne sintetizzava l’essenza scandalosa — digitus impudicus, ovvero “dito impudente” o “osceno”. Usarlo significava lanciare una vera e propria offesa fisica, anche senza dire una parola.

Oggi il dito medio è diventato parte del linguaggio globale del corpo, ma sapere che già oltre duemila anni fa serviva a offendere e a far ridere (spesso entrambe le cose insieme), aggiunge una nota curiosa e irresistibilmente umana alla storia dei gesti.

Fonti: Aristofane, Le Nuvole, 419 a.C.-R. D. Daube, The Gesture of the Finger in Classical Antiquity, The Journal of Roman Studies, 1969

M. Beard, SPQR: A History of Ancient Rome, 2015

Il Trinity Test.

Nel luglio del 1945, un gruppo di ragazzine di 13 anni è andato in campeggio a Rumoroso, New Mexico. Facevano il bagno allegramente in un fiume, senza sapere che a pochi chilometri di distanza era appena esplosa la prima bomba atomica al mondo: il Trinity test del Progetto Manhattan.

La ragazza davanti nella foto si chiamava Barbara Kent. Anni dopo, raccontò quello che vissero quel giorno: “All’improvviso, una nuvola enorme è apparsa su di noi. Il cielo si è illuminato in modo strano, tanto che mi faceva male guardarlo. Pensavamo fosse il sole, ma è gigante. ”

Poche ore dopo, alcuni fiocchi bianchi iniziarono a cadere dal cielo. Le bambine, emozionate, pensavano fosse neve.

Si sono messi i costumi da bagno e hanno giocato nel fiume, ridendo mentre si spalmavano “la neve” in faccia.

“La cosa strana era che non era fredda, ma calda. Ma avevamo 13 anni… ed era estate. ”

Quei fiocchi non erano neve.

Erano rifiuti radioattivi.

64 km da lì, 5:29 m. La bomba era esplosa. Nessuno in città è stato avvisato. Nessuno è stato evacuato. Né prima, né dopo. E la pioggia radioattiva cadde per giorni…

Tutte le ragazze in quella foto hanno sviluppato il cancro.

Sono morte tutte prima di compiere 30 anni.

Tranne Barbara Kent, che è riuscita a vivere più a lungo… anche se è sopravvissuto a vari tipi di cancro.

E non è stato l’unico caso.

In Australia, a Maralinga, sono stati fatti altri test nucleari.

E quanti aborigeni sono morti di cancro senza che il mondo lo registrasse?

Anche alcuni scienziati del Progetto Manhattan, come Dapo Michaels, comprendendo i danni che avevano causato, sono caduti nella colpa e nella disperazione. Dapo è stato ricoverato in un ospedale psichiatrico… ed è morto tormentato dalla vergogna.

Non dimentichiamoci che vicino al luogo dell’esplosione della bomba atomica anni dopo è stato girato un film su Atila, con John Wayne e Susan Hayward, che anche insieme a centinaia di persone relative alle riprese, morirono gradualmente di cancro. Quindi sono stati condannati a morire per la scarsa conoscenza e controllo della radioattività mortale.

La bomba non ha ucciso solo Hiroshima e Nagasaki.

Ha anche ucciso silenziosamente nei deserti americani.

In corpi che giocavano. Alle ragazze che volevano solo sentire la vita.

Si mostrano sempre gli “eroi” che hanno creato la bomba atomica e si sottolinea chi le ha lanciate.

Le vittime della nuova era delle guerre non solo hanno ucciso intere città, ma anche innocenti come esempio. Così le potenze mostrano la faccia B dei loro mandati, che non si arrampicino sull’uccidere migliaia di innocenti, non coinvolti nella lotta, ma che per il potere sono vittime collaterali.

“Non dimentichiamo mai il reale costo del potere”.

Una vicenda italiana è ancora coperta dalla segreto di Stato.

Una delle vicende più oscure e ancora oggi parzialmente coperte da segreto di Stato è quella dell’aereo Argo 16, precipitato il 23 novembre 1973 nei pressi dell’aeroporto di Venezia-Tessera. A bordo c’erano quattordici uomini, tutti militari o agenti dei servizi segreti. Nessun superstite.

L’aereo, un Gulfstream G-159, decollò alle 8:24 e precipitò soltanto un minuto dopo. Le autorità parlarono subito di guasto meccanico, ma chi conosceva la natura delle operazioni di Argo 16 sapeva che le cose erano molto più complesse. Quel velivolo era impiegato in missioni top secret di guerra elettronica, sotto il coordinamento dei servizi italiani e in stretta collaborazione con la CIA e la NATO.

Secondo l’ex comandante Mario Tumiati, Argo 16 svolgeva attività di spionaggio e intercettazione, anche in scenari caldi come il Medio Oriente. L’aereo era partito varie volte per missioni in Israele, durante e dopo la guerra del Kippur, e aveva effettuato operazioni sospette nei cieli dell’ex Jugoslavia.

Chi indagò sulla strage ipotizzò che l’aereo fosse sabotato. Alcuni testimoni sostennero che gli apparati di bordo erano stati manomessi. Altri parlarono di un’operazione di eliminazione, forse legata a documenti riservati trasportati a bordo. Alcuni dei passeggeri, inoltre, erano coinvolti in indagini delicate su traffici d’armi e su rapporti opachi tra intelligence e terrorismo.

Per decenni, sul caso Argo 16 è rimasto il silenzio istituzionale. Anche dopo la desecretazione parziale di alcune carte, molti documenti restano inaccessibili, e tuttora si sospetta che alcuni nomi e mandanti siano stati protetti per motivi di “sicurezza nazionale”.

Un enigma italiano, ancora nascosto tra le nuvole.

Listerine: l’antisettico nato in sala operatoria e finito nel tuo bagno.

A metà Ottocento, entrare in ospedale equivaleva quasi a firmare la propria condanna a morte.

Le sale operatorie pullulavano di infezioni, gli strumenti chirurgici venivano riutilizzati senza essere disinfettati, e i medici ignoravano del tutto l’esistenza dei germi, quelle creature invisibili responsabili di innumerevoli tragedie post-operatorie.

In quel mondo medico fatto di ignoranza e superstizioni, Joseph Lister, chirurgo britannico, fece la rivoluzione.

Ispirato dagli studi di Pasteur, iniziò a usare acido fenico (oggi noto come fenolo) per disinfettare ferite e strumenti.

I suoi pazienti cominciarono a sopravvivere.

Molti colleghi però lo deridevano:

«Microbi invisibili? Sciocchezze!», dicevano.

Ma non tutti lo ignorarono.

Nel 1876, durante una conferenza tenuta da Lister alla Fiera Mondiale di Filadelfia, un giovane medico americano, Joseph Joshua Lawrence, ne rimase folgorato.

Tornato a St. Louis, nel seminterrato di una vecchia fabbrica di sigari, creò un antisettico ispirato a quelle teorie rivoluzionarie e lo chiamò in suo onore: Listerine.

All’inizio, però, il prodotto passò inosservato.

Fino a quando non arrivò Jordan Wheat Lambert, un farmacista intraprendente.

Acquistò i diritti della formula e iniziò a promuoverla come soluzione miracolosa: contro la forfora, per pulire i pavimenti, curare la gonorrea…e infine — la svolta — come collutorio.

Solo nel 1895 Listerine trovò la sua vera vocazione: combattere l’alito cattivo.

Con una campagna di marketing senza precedenti, Lambert lanciò pubblicità che puntavano tutto sull’insicurezza personale: «E se il tuo alito allontanasse le persone… e tu non lo sapessi?»

Fu così che nacque il termine alitosi. E con esso, un’intera industria.

Dalle sale operatorie vittoriane… allo scaffale del tuo bagno.

Perché a volte i prodotti più comuni hanno origini chirurgiche, controverse e sorprendenti.

E ciò che oggi usiamo senza pensarci, un tempo è stato una rivoluzione nata dall’insistenza… e dal rifiuto.

Perché è così difficile trovare della carne frollata in Italia?

I motivi per cui in Italia è raro trovare della buona carne frollata sono molteplici, elencherò qui quelli che ritengo i 3 più importanti:

1. Il primo motivo, quello principe, è che la filosofia gastronomica del nostro paese si fonda sulla freschezza e la semplicità delle materie prime.
Peculiarità che rendono inimitabile la nostra cucina, ma che risultano controintuitive se si continua a inseguire la freschezza anche nella scelta di carni che invece riescono a donare una piena esperienza organolettica, con i giusti sapori e le corrette consistenze, solo in seguito a una certa maturazione (la frollatura appunto).

2. La seconda ragione per cui è difficile reperire della buona carne frollata in Italia è una diretta ripercussione del motivo precedente: una assenza piuttosto diffusa di cultura al riguardo.
Bistecche, costate e fiorentine sono presenze relativamente recenti sulle nostre tavolePrima dell’introduzione dei mezzi meccanici in agricoltura i bovini rappresentavano una risorsa talmente preziosa e indispensabile per tutta la filiera che le occasioni per consumarne le carni erano piuttosto rare.
In aggiunta, l’ansioso inseguimento dei canoni di freschezza e semplicità ha relegato nel nostro panorama culinario i prodotti senza quei requisiti a una nicchia poco frequentata.
Sotto questo aspetto siamo diventati un popolo gastronomicamente monotematico.
Recentemente in rete sono incappato in un filmato esemplare al riguardo, in cui una signora esibiva degli hamburger appena acquistati, inorridita e decisa a denunciare il supermercato perché sotto lo strato superficiale rosso e brillante si nascondeva carne di un colore grigio decisamente meno invitante.
Chiunque dotato di un minimo di conoscenze di base sul cibo avrebbe compreso che la parte truccata di quegli hamburger era la superficie rossa e vivida, imbellettata con monossido di carbonio, mentre la carne sottostante, semplicemente ossidata, mostrava il suo colore naturale.
Ma tant’è, ormai sembriamo tutti felicemente orientati a contare sulle percezioni invece che sulla competenza.

3. Un’ulteriore motivo per cui reperire carne frollata è raro in Italia è quello non banale dei prezzi, necessariamente e decisamente superiori a quelli che siamo abituati a trovare nelle macellerie per i tagli freschi.

La realtà è che certa carne, a prescindere dalla qualità della razza di provenienza, se consumata nell’immediatezza della macellazione risulta dura e poco saporita e l’unico modo per ovviarvi è di farla maturare.
Qui entra in gioco la tecnica della frollatura, una raffinatezza in questo senso che tramite prassi meticolose -deve avvenire lentamente in celle apposite che permettono la sapiente gestione di alcuni parametri quali la temperatura, il ph, l’umidità etc.- innesca un processo che consente di rilassare e distendere le fibre muscolari della carne, conferendogli maggiore morbidezza, intensificandone il gusto e donandogli anche una maggiore digeribilità.

Per una riflessione finale sulle ragioni della scarsa offerta di carne frollata in Italia ricorro a un espediente semplice e visivamente immediato.
Date un’occhiata all’immagine in cui sono mostrati due tagli identici, uno fresco e uno frollato e ponetevi la domanda: quanti italiani su cento ne apprezzerebbero il valore e sceglierebbero istintivamente la carne frollata?