L’idea che Atene sia stata la “prima democrazia” e che quella forma di governo rappresentasse una sorta di anticipazione cristallina, quasi archetipo ideale del nostro sistema politico moderno, è una costruzione storica tanto radicata quanto fallace.
Un mito, insomma, nato da nobili intenzioni, coltivato dall’umanesimo con la sua reverenza per l’antichità classica, rinvigorito dall’Illuminismo e infine consacrato nell’Ottocento, quando l’Europa moderna cercava nel passato fondamenti legittimanti per contrapporsi all’assolutismo monarchico. Ma, come accade con molte narrazioni fondative, anche questa risulta più utile che veritiera.
Occorre partire da un punto fermo: Atene non ha “inventato” la democrazia, almeno non nel senso in cui oggi diamo corpo e contenuto a questo concetto.
Certo, il termine δημοκρατία è greco, e letteralmente significa “potere del popolo”; ma ciò che noi intendiamo oggi con democrazia (suffragio universale, tutela dei diritti civili, separazione dei poteri, stato di diritto, garanzie per le minoranze) era del tutto estraneo alla sensibilità politica degli antichi.
Per molti pensatori del tempo, da Platone ad Aristotele, la democrazia rappresentava anzi una forma corrotta di governo: un dominio delle moltitudini, pericolosamente esposte alle lusinghe dei demagoghi e alle fluttuazioni delle passioni collettive.
La cosiddetta democrazia ateniese nasce nel VI secolo a.C., come esito di forti tensioni sociali interne: la crescente arroganza dell’aristocrazia terriera suscitava malcontento e instabilità. Le riforme di Solone prima e di Clistene poi miravano a redistribuire il potere politico, ampliando, almeno nominalmente, la partecipazione dei cittadini, introducendo meccanismi di sorteggio e contenendo l’influenza delle famiglie più potenti.
Ma è qui che le apparenze si sgretolano: la cittadinanza era un privilegio estremamente ristretto. Solo i maschi adulti, figli legittimi di due genitori ateniesi, potevano partecipare alla vita pubblica, escludendo quindi schiavi, meteci (stranieri residenti) e ovviamente le donne. Su una popolazione complessiva di circa 300.000 individui, appena 30.000 godevano del diritto di voto. Le donne, pur rappresentando metà della popolazione, erano giuridicamente invisibili: escluse dalla politica, prive di diritti civili, non potevano possedere proprietà né testimoniare in tribunale.
A questa esclusione sistematica si aggiunge un’altra verità spesso rimossa: Atene era una società schiavista, non marginalmente, ma nella sua stessa struttura portante. Gli schiavi, presenti nelle abitazioni, nei campi, nelle officine, perfino nelle miniere, erano stimati in oltre 100.000 unità. Erano più numerosi dei cittadini. Senza di loro, l’economia, il funzionamento delle istituzioni pubbliche, e persino il tempo libero necessario per la riflessione filosofica o per la partecipazione politica, sarebbero stati impensabili. Era, insomma, una democrazia fondata sul lavoro coatto.
Eppure, ancora oggi, Atene continua ad essere proposta come l’alfa della libertà politica. Perché? Le ragioni sono molteplici: ignoranza storiografica, fascinazione idealizzante, ma anche convenienza politica. Già nel V secolo a.C., subito dopo la vittoria contro i Persiani, Atene avvia un processo di costruzione mitologica di sé stessa. Il celebre discorso funebre di Pericle, trasmesso da Tucidide, è forse il manifesto più potente di questo racconto: una città libera, retta dall’uguaglianza, dove ogni cittadino può ambire a cariche pubbliche. Ma chi legge Tucidide oltre le sue vette oratorie, sa che quell’Atene fu anche imperialista, aggressiva, violenta. Il massacro di Melo (isola neutrale che si era rifiutata di unirsi alla lega ateniese) ne è la prova più crudele: gli uomini furono sterminati, le donne e i bambini ridotti in schiavitù.
Nemmeno la prassi democratica interna era immune da gravi distorsioni. Le assemblee erano formalmente aperte, ma la parola era potere: chi dominava la retorica, dominava la scena politica. I demagoghi, Alcibiade in testa, riuscivano a trascinare l’opinione pubblica verso scelte disastrose, come la rovinosa spedizione in Sicilia. E l’ostracismo, che pur si riteneva garanzia contro derive tiranniche, fu spesso piegato a interessi di parte, trasformandosi in uno strumento per eliminare rivali politici scomodi.
Tutto ciò dovrebbe bastare a ridimensionare l’idea di Atene come “prima vera democrazia”. Se per “vera” si intende “inclusiva, equa, rispettosa delle differenze”, allora è chiaro che non lo fu. Era una forma di governo partecipativa solo per una ristretta élite, ed escludeva sistematicamente donne, stranieri, schiavi. In termini moderni, potremmo persino definirla un’oligarchia travestita, un regime selettivo e gerarchico, benché capace di produrre vette culturali e artistiche senza pari. Ma non possiamo lasciare che quelle conquiste celino, come un velo elegante, le profonde contraddizioni della società ateniese.
In verità, esperimenti di tipo assembleare o partecipativo si riscontrano anche altrove, e in epoche precedenti. Le città della Mesopotamia, le comunità tribali indoeuropee, alcune poleis minori dell’Egeo mostrano istituzioni che, pur non somigliando alle nostre democrazie, sfuggono alla narrazione centralizzante dell’unicità ateniese. Persino a Sparta, società arcaica e militarizzata, si trovano elementi collegiali e consultivi spesso ignorati dalla vulgata classica.
È sorprendente, ma non inspiegabile, che questo falso storico abbia attraversato indenne i secoli. Il Rinascimento riscopre i testi antichi, ma spesso li depura delle loro ombre. L’Illuminismo, nel suo anelito di razionalità e libertà, elegge Atene a icona ideale, trascurando ciò che stonava con il mito. La Rivoluzione francese guarda alla Grecia come a una matrice eroica, ma dimentica gli schiavi senza alcun diritto. I padri fondatori degli Stati Uniti leggevano Tucidide, ma trascuravano il fatto che anche i “padri della democrazia” erano, letteralmente, padroni di schiavi.
Così siamo arrivati a oggi con una convinzione tanto rassicurante quanto infondata: che la democrazia sia nata ad Atene, una volta per tutte, come dono eterno della civiltà greca. Ma la realtà è ben più complessa e, per certi versi, più inquietante. La democrazia, se esiste davvero, non è un’eredità congelata nel tempo, ma una costruzione fragile, sempre imperfetta, da reinventare con fatica in ogni epoca. Non è mai stata un punto di partenza, ma un punto d’arrivo, e nemmeno ad Atene era un dato di fatto.
Riconoscere questo non significa screditare la civiltà greca, tutt’altro: significa riconoscerne la profondità, la ricchezza, le lacerazioni. Significa poter ammirare Pericle senza ignorare le donne silenziate, studiare Platone senza eleggerlo a profeta politico, comprendere che il passato non va mitizzato ma interrogato. La libertà politica non si eredita: si conquista. E si difende, sempre, nel presente.