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Durante l’assedio di Gaeta, e poco dopo la resa di Francesco II, il brigantaggio nell’alta Terra di Lavoro, nel periodo compreso tra il 1860 ed il 1870, ebbe caratteristiche insurrezionali e di guerriglia, dove alcuni dei più temuti capi banda, molti dei quali ex militari ed ufficiali dell’esercito borbonico, non avevano deposto le armi dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie. A questi si unirono ex volontari garibaldini, delusi dal mancato assorbimento delle loro armate nel nuovo esercito del Regno di’Italia; soldati sbandati; renitenti alla leva e contadini e pastori al seguito di guardaboschi e campieri.
In Terra di Lavoro, tra il 1861 ed il 1870, operarono 51 bande. Tra Sora e la Val Roveto, la banda dell’ex guardaboschi Luigi Alonzi, detto ‘Chiavone, nominato generale da Francesco II, condusse importanti azioni di guerriglia contro l’esercito piemontese lungo il confine pontificio, sfruttandone l’extraterritorialità nei ripiegamenti. La banda, che indossava uniformi francesi acquistate nel ghetto di Roma, oltre ad infliggere significative perdite all’esercito sabaudo, riuscì a conquistare Fontichiari e Pescosolido nel maggio 1862. Tra le Mainarde ed il Massico, fino all’aquilano, operava la banda del sergente Domenico Fuoco, originario di San Pietro Infine, legata al gruppo ‘Chiavone. La banda, che arrivò a contare fino a 150 uomini, fu operativa fino al 16 agosto 1870, quando Fuoco fu ucciso.
Cervaro, Cassino e Mignano erano territorio delle scorribande di Cristofaro Valente e di Giacomo Ciccone. Altra banda era quella di Domenico Coja (Centrillo), un ex soldato borbonico che, durante l’assedio di Gaeta, fu incaricato di intraprendere azioni di guerriglia sul Mainarde, con stretti legami organizzativi con la banda di ‘Chiavone fino alla fine del 1861. Tra Sessa Aurunca e Mondragone operavano le bande legate a Domenico Fuoco di Francesco Tommasino, detto “il sanguinario”, e di Carmine Di Marco, detto il “Salammio”, specializzate anche in sequestri a scopo estorsivo. Altre bande erano ancora quelle di Masocco, Gasparrone, Giuseppe Antonio Conte, Francesco Piazza detto “Cuccitto”, i fratelli La Gala, Pietro Garofalo, Francesco Guerra, Colamattei, Garofano, Di Meo, De Lellis, etc.
Cervaro, Cassino e Mignano erano territorio delle scorribande di Cristofaro Valente e di Giacomo Ciccone. Altra banda era quella di Domenico Coja (Centrillo), un ex soldato borbonico che, durante l’assedio di Gaeta, fu incaricato di intraprendere azioni di guerriglia sul Mainarde, con stretti legami organizzativi con la banda di ‘Chiavone fino alla fine del 1861. Tra Sessa Aurunca e Mondragone operavano le bande legate a Domenico Fuoco di Francesco Tommasino, detto “il sanguinario”, e di Carmine Di Marco, detto il “Salammio”, specializzate anche in sequestri a scopo estorsivo. Altre bande erano ancora quelle di Masocco, Gasparrone, Giuseppe Antonio Conte, Francesco Piazza detto “Cuccitto”, i fratelli La Gala, Pietro Garofalo, Francesco Guerra, Colamattei, Garofano, Di Meo, De Lellis, etc.
La guerriglia giustificò lo stato d’assedio delle province meridionali e la conseguente repressione militare fu estesa ai ceti intermedi che sostenevano i briganti e le rivolte contadine, mettendo sotto controllo poliziesco e giudiziario gran parte dell’opposizione radicale ed estrema. Tutti i poteri civili e militari furono concentrati nelle mani dell’autorità militare, i tribunali ordinari ed i tribunali militari di pace furono sostituiti con i tribunali militari di guerra, l’autorità militare fu investita del potere legislativo. Sospettati di contiguità con i briganti, molti quadri del partito radicale furono arrestati e si arrivò, per ordine del generale La Marmora, anche all’arresto di tre deputati della Sinistra liberale, Mordini, Fabrizi e Calvino.
La repressione del brigantaggio impegnò 2/5 dell’esercito nazionale, 105.209 uomini, al comando del generale La Marmora e del generale Cialdini, e non risparmiò i civili, come nel caso dei massacri di Casalduni di Pontelandolfo.
A soffiare sul fuoco, il vento insurrezionalista che imperversava nelle province meridionali, dove le masse contadine avevano riposto le loro speranze nella promessa della riforma agraria fatta da Garibaldi. I 130.000 ettari di terreni demaniali messi in vendita, con ilprovvedimento approvato il 24 dicembre 1864, che furono divisi in 50.000 lotti, finirono in gran parte nelle mani dei vecchi proprietari terrieri, i quali erano diventati la nuova elite politica, impedendo la formazione di una nuova classe di piccoli proprietari terrieri.